Uguali in dignità, davanti a Dio. Ma diversi per quanto riguarda i ruoli, le attitudini, le esigenze proprie dei due generi
Nell’attuale concezione femminista dell’uomo e della donna la differenza tra le due creature viene annullata. Per Alexandra Kollontaj (1872-1952), famosa rivoluzionaria, amica di Lenin, la realizzazione femminile passa dal lavoro fuori casa: l’educazione dei bambini, la cucina, la casa, la “cura” del marito, sono tutti residui di una cultura oppressiva da spazzar via. L’utero stesso, in certo pensiero femminista, diviene un impiccio, in quanto “costringe” la donna ad essere madre.
Oggi questo pensiero è dominante, anche se non sempre così esplicito. Le donne realizzate, quelle che occupano le copertine dei giornali che celebrano l’8 marzo, sono quelle che hanno avuto successo, come gli uomini, in politica, in banca, in azienda… La casalinga è di per sé una “poveretta”, irrimediabilmente frustrata; anche la donna che per i figli rinuncia ad una carriera “migliore” è guardata con sospetto.
Non si vuol dire che il lavoro non possa essere parte della realizzazione femminile, ma certamente, nella concezione cristiana della donna, esso non lo può essere principalmente. Perché tra uomo e donna vi è una differenza, che non può essere annullata o ignorata, come avviene nella cultura occidentale contemporanea.
Dire che l’uomo e la donna sono uguali in dignità, perché ugualmente creature di Dio, non esclude affatto che vi siano differenze per quanto riguarda i ruoli, le attitudini, le esigenze proprie dei due generi. Secondo l’attuale teoria del gender non siamo né uomini né donne, ma, gnosticamente, ciò che desideriamo divenire. In quest’ottica la famiglia non è più necessariamente l’unione di un uomo e di una donna e, di conseguenza, un figlio non ha bisogno di due genitori di sesso diverso, ma qualsiasi soluzione fattibile e sperimentabile è di per sé lecita.
La realtà è ben diversa: ognuno di noi nasce uomo o donna. Ha cioè una natura maschile o femminile, ben visibile, anzitutto, fisicamente. Il corpo dell’uomo e quello della donna sono diversi e complementari. Questa diversità fisica, data in origine, si accompagna ad una diversità psichica, quella invece in fieri, affidata all’educazione, alle circostanze, eppure anch’essa con una sua sostanza immutabile. La donna nasce donna e nello stesso tempo deve divenire donna; lo stesso l’uomo. “Natura” è infatti un participio futuro: nasciamo e continuiamo a nascere… Ecco perché è possibile quello che avviene oggi: una rivoluzione antropologica tale per cui esistono sempre più uomini effeminati, che si truccano, che preferiscono lo shopping al calcio, che si impiastrano i capelli, e donne mascoline che farebbero paura agli scaricatori di porto. È la nostra “cultura” che lotta con la natura, la perverte, invece di assecondarla e di compierla. La differenza tra uomo e donna infatti è originaria, ma va coltivata, non ostacolata. Quanto alla specificità della donna, scriveva Edith Stein: «Non solo il corpo è strutturato in modo diverso, non sono differenti solo alcune funzioni fisiologiche particolari, ma tutta la vita del corpo è diversa, il rapporto dell’anima col corpo è differente, e nell’anima stessa è diverso il rapporto dello spirito alla sensibilità, come rapporto delle potenze spirituali tra loro».
Questa differenza, a mio avviso, si sostanzia in questo: la funzione, il ruolo materno della donna, che è la sua natura più vera, la rende più attenta al particolare, mentre la natura dell’uomo, che è la natura paterna, è più incline all’universale. La madre custodisce, protegge, conforta; il padre taglia il cordone ombelicale, dà sicurezza, introduce nella società.
Scriveva sempre Edith Stein: «Il modo di pensare della donna, e i suoi interessi, sono orientati verso ciò che è vivo e personale e verso l’oggetto considerato come un tutto. Proteggere, custodire e tutelare, nutrire e far crescere: questi sono i suoi intimi bisogni, veramente materni… A queste disposizioni materne si uniscono quelle proprie della compagnia. Saper partecipare alla vita di un altro uomo, cioè sapere prendere parte a tutto ciò, grande e piccolo, che lo riguarda, alla gioia e al dolore, come al suo lavoro e ai suoi problemi: ecco il dono e la felicità della donna».
Che cosa significa tutto questo? Semplicemente quello che vediamo ogni giorno: la donna nota il particolare, il calzino sbagliato, il colletto della camicia alzato, la smorfia del bambino diversa dal solito; legge con un solo sguardo ciò che il marito ha in testa, ne intuisce i pensieri, i problemi; ricorda le date, gli anniversari, tutto ciò che ha a che vedere con la vita di tutti i giorni…
Sa essere madre sia del figlio che, in qualche modo, del marito, perché coglie la realtà così come si presenta a lei; si dedica alla realtà, con spirito di servizio, di donazione. «La donna – scriveva Gustave Thibon – è fatta per sacrificarsi alle persone che la circondano, per assicurare il futuro immediato dell’umanità. L’uomo, al contrario, è destinato a un’attività più universale: la sua missione consiste nel prodigarsi, spesso nello sciuparsi, per scopi altrettanto concreti, ma assai meno prossimi nel tempo e nello spazio. La donna vigila sulle sottostrutture, l’uomo sulle sovrastrutture. Non credo che queste due funzionino ad essere invertite come spesso accade ai nostri giorni».
Questa attitudine della donna (con le dovute eccezioni), questo suo essere fortemente “incarnata”, come incarnato in lei è il figlio che porta nel grembo, la rende spesso molto concreta e capace di muoversi nella realtà immediata. L’attenzione della donna al particolare, così essenziale per la vita nascente e per la famiglia, si vede per converso anche nei suoi difetti: mentre il vizio dell’uomo può essere l’astrattezza, e la superbia, la donna rischia di cadere molto di più nelle piccole invidie e gelosie, legate, appunto, al particolare. L’uomo ama la storia e la politica, discute di massimi sistemi, si crede il ct della nazionale, anche quando non pratica né la politica né il calcio. La donna, di massima, preferisce la letteratura, la poesia, la psicologia quando hanno a che fare con vicende, pensieri, emozioni concrete, sperimentabili nella quotidianità.
Un esempio: la donna tragicizza talora il particolare, una lite col vicino, un disturbo del figlio, mentre l’uomo lo minimizza, alla luce dell’universale, e alleggerisce pesi che la donna farebbe troppo gravi, ma che lui, però, magari neppure noterebbe. Si instaura così un bilanciamento che evidenzia la complementarietà tra le due creature.
La concretezza della donna, legata al suo compito di madre e di moglie, ha una grande funzione: la rende tutto sommato ottimista. È più difficile che la donna si ponga davanti problemi immensi, astratti, perché preferisce affrontarli e risolverli di volta in volta, ed è più raro, quindi, che ne rimanga schiacciata. È l’uomo che, intellettualizzando quello che invece andrebbe vissuto anche con slancio di cuore, si rifugia, molto più spesso, nella droga, o nel suicidio. L’atteggiamento femminile, più umile, incarnato, la rende anche naturalmente più religiosa. La madre si inginocchia più facilmente del padre; l’amore è più umile dell’autorità. Sono più numerose le donne che pregano, che vanno in Chiesa, che sentono la loro dipendenza da Dio, degli uomini. Essi invece cercano le soluzioni più in grande, quelle sociali, politiche: possono essere grandi civilizzatori, politici, economisti, ecc., ma possono anche degenerare nell’astrattezza dell’ideologia e dell’utopia. Non è un caso che le ideologie di morte, nate dalla sottovalutazione dei “particolari”, dalla astrattezza e dalla superbia, siano per lo più frutto di menti maschili, e non femminili. L’insoddisfazione nociva infatti nasce più facilmente in chi cerca di imporsi sulla realtà, piuttosto che in colei che, per sua natura, serve una realtà, la vita nascente, sperimentata fin da principio come dono. Per un cristiano, alla Madonna Dio ha dato il compito di curare e crescere Cristo stesso; a Pietro di guidare la sua Chiesa nel mondo. All’uomo il compito di reggere la famiglia nelle sue scelte, soprattutto verso la società, l’esterno; alla donna il compito di guidare i figli e l’uomo, nelle scelte, fondamentali, della famiglia. Per questo una donna tutta “fuori” è una perversione della femminilità, nociva per la famiglia e la società intera; esattamente come un uomo tutto “dentro”. Primati diversi, dunque, per una identica dignità, lontano dalle miopi guerre tra i sessi.
IL TIMONE N. 96 – ANNO XII – Settembre/Ottobre 2010 – pag. 48 – 49