La nuova opera di Solgenitsin fa emergere il ruolo di primo piano svolto dalla comunità israelitica nell’apparato sovietico e nella rivoluzione bolscevica. A servizio della repressione.
Chi vuole leggere l’ultima, immensa opera di Aleksandr Solgenitsin, dovrà procurarsi l’edizione francese pubblicata da Fayard in due volumi: Oeux siècles ensemble (due secoli insieme). Solgenitsin sfida il più inviolabile dei tabù del nostro tempo: la parte avuta dagli ebrei nell’apparato sovietico. Tema scottante. Finora, è stato un vizio da antisemiti quello di additare gli ebrei ai vertici del PCUS: da Trotzkij (nato Bronstein) a Kamenev (Rosenfeld), da Zinoviev a Sverdlov (il massacratore della famiglia dello Zar) a lagoda, capo del NKVO (futuro Kgb) e fondatore dell’universo concentrazionario comunista, fino a Kaganovic, cognato di Stalin. Solgenitsin sfida l’accusa di antisemitismo (già da tempo ventilata contro di lui) scavando in un’immensa documentazione, quasi tutta di origine ebraica, che dimostra di peggio: non solo – come scrive il poeta israelita Nahum Korjavin – che «gli ebrei hanno preso parte alla rivoluzione in numero anormalmente elevato», ma che la comunità giudaica russa ha costituito l’apparato burocratico e poliziesco del sistema sovietico. Come scrive un altro ebreo onesto, G. Aronson: «Non si può tacere l’azione dei tanti ebrei che hanno operato come agenti subalterni della dittatura, causando Immensi mali alla popolazione».
È questo il dato agghiacciante che Solgenitsin porta alla luce. Perché gli spietati ordini dei capi non avrebbero devastato così a fondo la Russia, se non avessero trovato, a tradurli in azione, lo zelo feroce dell’apparato intermedio. Come ammette lo storico ebreo O.S. Pasmanik, citato da Solgenitsin, «Il bolscevismo divenne, per gli ebrei delle città, un mestiere». Era l’orrendo mestiere della repressione sanguinosa, dei temuti Commissari del popolo, dei dirigenti dei Gulag. Dei «giudici istruttori incaricati della lotta alla contro-rivoluzione, la metà erano ebrei», racconta lo storico ebreo L.I. Kritchevsky: personaggi che hanno mandato a morte dal 1918 al ’20 centinaia di migliaia di vittime durante il “Terrore Rosso”. La Cheka, la polizia politica che scatena il Terrore Rosso, è sovraffollata di ebrei (in Ucraina, sono l’80 per cento del personale), che si mettono in luce per la ferocia del loro zelo. Lo storico ebreo G. Landau, contemporaneo, si stupisce di ciò «che meno ci si aspetterebbe di trovare in un ambiente ebraico: crudeltà, sadismo, violenza. Coloro che ieri ancora non sapevano maneggiare il fucile, si sono trovati a fare i tagliagola e i carnefici». Ma già nel 1923 – leggiamo ancora Solgenitsin – un intellettuale israelita, l. M. Bickerman, notava sgomento: «Oggi l’ebreo è presente ad ogni livello del potere, questa incomparabile macchina di autodistruzione. L’uomo russo vede nell’ebreo il giudice e il boia; ad ogni passo vede ebrei che operano a favore del potere sovietico. Non ci si può stupire se il russo si fa l’idea che il boslcevismo è il potere ebraico». La distruzione delle chiese e il massacro dei pope ortodossi «trovava i suoi autori più zelanti tra i commissari ebrei». Nel luglio 1919 gli operai di Arcangelsk osano scrivere alla Pravda: «Compagni, ad essere profanate, saccheggiate e devastate sono solo le chiese ortodosse, mai le sinagoghe. La morte per fame rapisce migliaia di vite innocenti fra i russi, mentre gli ebrei non muoiono né di fame né di malattia».
Lenin in persona rispose emanando il seguente ordine: «Prendere misure radicali per sradicare l’antisemitismo». Si sa cosa significavano, in Urss, misure “radicali”. Infuriava la carestia, ma a Mosca, nella Casa dei Soviet chiamata Il Nazionale, dove abitava la nomenklatura sovietica, “non mancavano mai caviale, formaggi, burro, storione affumicato». Ai bambini si serviva a colazione “riso al latte, cioccolata, pane e uova fritte,,: generi inviati dagli Usa per alleviare le sofferenze della carestia sul Volga. Ora, gli inquilini del Nazionale, ricostruisce lo scrittore russo, scherzavano tra loro: «Perché non apriamo qui una sinagoga, visto che siamo tutti ebrei?».
Questo genere di battute si estende negli ambienti dirigenti dell’Europa comunista. In Ungheria il comitato centrale ècomposto di quattro membri: tre sono ebrei. “Ci vuole pure un gentile, per firmare le esecuzioni capitali il sabato», scherza Matias Rakosi, uno dei tre.
Dunque erano rimasti, in qualche modo, ebrei «religiosi»? In quale misura entrava, in questa adesione all’atrocità, in questa indifferenza per le sofferenze che costoro infliggevano ai popoli, la perversione della credenza di essere i soli depositari dell’Elezione, i soli veri esseri umani, l’idea di “separatezza” che gli ebrei coltivano rispetto al resto dell’umanità? Già Sergei Bulgakov, ex rivoluzionario poi diventato teologo ortodosso, aveva paventato – dice Solgenitsin – nella mostruosità una perversione dell’elezione: «La faccia che il giudaismo mostra nel bolscevismo russo… testimonia, nel seno stesso d’Israele, uno stato di terribile crisi spirituale, che può condurre alla bestialità».
È questa, non già non so quale antisemitismo, la preoccupazione che ha mosso Solgenitsin a questa difficile, pericolosa ricerca. Egli invita gli ebrei, tutti, a riconoscere la verità, a non cercare di nasconderla come hanno fatto: «Non si tratta di rispondere davanti agli altri popoli, ma davanti a se stessi, alla propria coscienza, a Dio». Non per rigettare i crimini di quei volonterosi carnefici come colpa collettiva sulla faccia degli ebrei. Ma li invita al necessario pentimento. Lo fa con le parole del dissidente sovietico e oggi cittadino israeliano Nathan Scharanski: l’idea di elezione «è accettabile solo se implica una responsabilità morale accresciuta. Sia o no facile, dobbiamo raddoppiare gli sforzi per comprendere noi stessi, e comprendere gli altri». Il punto di vista, le sofferenze degli altri. Perché altrimenti, «c’è il pericolo che tutto questo accada di nuovo».
DA NON PERDERE
Due secoli insieme
Aleksandr Solgenitsin ha pubblicato un’altra opera straordinaria che va ad aggiungersi. alle tante che hanno accompagnato la vita di questo importante testimone della barbarie comunista nel XX seco1o. Si tratta di un’opera in tre volumi (ne sono usciti solo i primi due) sul rapporto fra russi ed ebrei nei due secoli passati, dal 1795 al 1995 (Deux siècles ensemble 1795-1995, vol. I, Jujfs ét Russes pedant la période soviétique, tradotti dall’ editore francese Fayard rispettivamente nel 2002 e nel20003, per un totale di oltre millecento pagine).
Un’opera unica nel suo genere, basala su fonti quasi esclusivamente ebraiche,che traccia un’ampia storia dei difficili rapporti fra i due popoli, prima .della rivoluzione d’Ottobre che porterà i bolscevichi di Lenin a conquistare il potere in Russia, nel 1917, durante le rivoluzioni, quella “borghese” di febbraio e quella comunista di ottobre 1917, per arrivare fino alla “fuga” dall’URSS verso Israele di decine di migliaia di ebrei a partire dagli anni 1970. L’autore conduce così il lettore lungo un itinerario che vede gli ebrei, perseguitati prima della Rivoluzione, diventare, in una parte notevole, complici dell’instaurazione e del mantenimento del regime comunista russo, prima di ritornare a essere oggetto della persecuzione, durante il periodo staliniano.
Da questa lunga storia proposta da Selgenitsin, ricchissima di informazioni, Maurizio Blondet ha scelto e analizzato alcuni aspetti, soprattutto relativi al ruolo svolto da molti membri della comunità ebraica russa nell’apparato repressivo del partito comunista. Li proponiamo ai lettori de Il Timone con lo stesso auspicio che il grande scrittore premette alla sua opera a proposito del rapporto fra russi ed ebrei: «… cercare tutti i punti di una reciproca comprensione, tutte le voci possibili che, sbarazzatesi dall’acredine, del passato, possano condurci verso l’avvenire».
IL TIMONE – N. 35 – ANNO VI – Luglio/Agosto 2004 – pag. 50 – 51