La storia deriva, come concetto e come metodo, dall’esperienza e dalla civiltà dei Greci: historia significa, in greco, l’indagine tesa all’accertamento del fatto e la storia è, per i Greci, storia di fatti (tà pragmata).
Erodoto distingue le notizie che conosce per esperienza diretta (autopsia) da quelle che conosce per il racconto di testimoni o per sentito dire; Tucidide va oltre ed insiste sulla critica (akribeia) a cui ogni testimonianza va sottoposta, perché “gli stessi fatti sono narrati in modo diverso da testimoni diversi” e lo storico deve prendere coscienza della deformazione che avviene per eunoia o per mneme, per la tendenziosità del testimone o per la sua memoria.
Già la terminologia usata dai Greci rivela lo stretto collegamento che la ricerca storica ha con l’indagine processuale: histor è in Omero l’arbitro scelto fra due contendenti per ascoltare e valutare le versioni dell’uno e dell’altro e per accertare il fatto; martys, martyrion, martyria e i verbi corrispondenti indicano il testimone, la prova, la testimonianza e sono largamente usati dagli oratori attici e dagli storici: perché la storia è una narrazione fondata su testimonianze e prove, una narrazione che deve dare ragione di ciò che narra, a differenza della favola, dell’epica, del romanzo, che come la storia narrano, ma ciò che non è mai avvenuto o che può avvenire, non ciò che è avvenuto: la storia narra il probabile, ciò di cui si possono fornire le prove, e che può essere anche inverosimile, non il possibile o il verosimile.
Questa distinzione era già chiara ad Aristotele e a Polibio e spiega il ricorso frequente negli storici (da Erodoto a Tucidide, a Senofonte, a Polibio, a Diodoro, a Dione Cassio), al concetto di martyrion come prova: in II, 22, 2 Erodoto dichiara incredibile che il Nilo nasca dallo scioglimento delle nevi e ritiene proton kai meghiston martyrion, prova fondamentale della sua affermazione, i venti caldi che soffiano dalle zone da cui il Nilo deriva; Tucidide (I, 8,1) afferma che la prova (martyrion) che gli isolani dell’Egeo erano pirati Cari e Fenici è fornita dalle armi trovate nelle sepolture di Delo al tempo della purificazione dell’isola; Senofonte (Hell. I, 7, 4) ricorda che Teramene, durante il processo delle Arginuse, citò una lettera degli strateghi a conferma (martyrion) della sua versione dei fatti.
Caratteristiche sono le forme polibiane (martyrion… pisteos charin II, 38, 11; martyrion pros pistin XXI, 11, 4; martyrion pros aletheian I, 20, 13), in cui dall’accertamento di un fatto si passa alla credibilità (pistis in greco indica fede) di chi afferma e di ciò che è stato affermato e all’idea di verità (aletheia).
Il significato fondamentale di testimone, testimonianza, prova di fatti storicamente accertati e della verità dei termini martys, martyria, martyrion e dei verbi corrispondenti, si ritrova nel largo uso che il Nuovo Testamento fa di essi e nella traduzione che la vulgata ne dà in latino: testis, testimonium, testificor.
Se in Luca (24, 28) e negli Atti degli Apostoli (5, 32) martys è usato chiaramente per ribadire i fondamenti storici del messaggio evangelico, nell’Apocalisse giovannea (1, 5 e 3, 14) Cristo stesso è detto “testimone fedele” (ho martys ho pistos) e viene confermato il significato del verbo martyreo in Giovanni (18, 27) in cui Gesù afferma davanti a Pilato ci essere venuto ut testimonium perhibeam veritati (hina martyreso te aletheia), per rendere testimonianza alla verità.
In ambedue i passi martys e martyreo hanno il significato noto nel greco classico, ma si fa strada l’idea di una testimonianza data anche con l’offerta della vita. È questo il significato che il termine martys ha nell’Apocalisse (2, 13), in cui Antipa, ucciso per la fede a Pergamo, è detto ho martys mou pistos, il mio testimone fedele: qui il testimone, che paga la sua testimonianza con l’offerta della vita, non è più testimone soltanto dei fatti e della verità, ma di una Persona, Cristo.
L’evoluzione definitiva del concetto, per cui martys assume il significato ecclesiale di Martire, martyr in latino (con un prestito dal greco), avverrà più tardi, dopo la metà del Il secolo, quando la Chiesa sarà costretta a chiarire, contro le deviazioni dell’eresia montanista, il concetto di “martire secondo il vangelo”: qui vale però la pena di riprendere il passo già citato di Luca 24, 48, in cui Gesù stesso, al momento di lasciare gli Apostoli dopo la resurrezione, li esorta ad essere testimoni di ciò che hanno visto: hymeis martyres touton. Nei passi corrispondenti, gli altri sinottici, Marco (16, 15) dice “annunciate il vangelo” (keryxate tò euanghe/ion) e Matteo (28,19) “insegnate a tutti i popoli” (matheteusate panta tà ethne): è evidente che non c’è nessun contrasto fra il kerygma e la testimonianza della storia e che il greco Luca ha tradotto spontaneamente e naturalmente l’impegno dell’annuncio con l’impegno alla testimonianza dei fatti storicamente accertati. Si capisce così il prologo del suo Vangelo, che comincia con una dichiarazione metodologica che, nelle parole e nei concetti, si rifà apertamente alla storiografia scientifica greca, di cui Tucidide era stato maestro: “Poiché molti hanno preso l’iniziativa di raccontare gli avvenimenti (pragmata), che si sono compiuti fra noi, come li hanno tramandati coloro che sono stati fin dall’inizio testimoni oculari (hoi ap’arches autoptai) e servi della Parola, ho deciso anch’io, egregio Teofilo, dopo aver vagliato tutto fin dall’inizio con senso critico (akribes) di scriverteli ordinatamente, affinché tu conosca la sicurezza (asphaleia) di ciò che ti è stato insegnato a viva voce”.
C’è la raccolta delle testimonianze di chi ebbe esperienza diretta dei fatti, il richiamo all’autopsia, caro agli storici greci; c’è l’analisi critica di questi racconti (l’akribeia fondamentale per Tucidide); c’è la certezza, la sicurezza, che nasce dalla narrazione di ciò di cui si sono date le prove.
Il kerygma, l’annuncio, diventa così una narrazione storica, che si rivolge alla razionalità degli ascoltatori, dando ragione di ciò che narra.