Mi sono sempre chiesto perché, nei tempi antichi e medievali, uno dei temi su cui insisteva la predicazione era la vanità delle donne. A furia di compulsare, per mestiere, vite di santi, mi sono dovuto arrendere: quasi non c’è Padre della Chiesa o teologo dei “secoli cristiani” che non abbia dedicato all’argomento qualche attenzione quando non interi trattati. Letta con gli occhi dell’uomo di oggi (ed io lo sono), la cosa lì per lì strappa un mezzo sorriso, così come le autoflagellazioni, il cibarsi di sole ostie, vivere in cima a una colonna o saldarsi una catena al piede: esagerazioni ascetiche dei tempi passati. Però, dopo aver visto in pieno inverno, tra raffiche di nevischio e gradi sottozero, ombelichi far capolino per un buon palmo tra un giubbotto di pelliccia e calzoni imbottiti di piumino, ho cominciato a riflettere. So di ragazzine che si sono procurate seri problemi alle reni, ai reni e alle ovaie per botte di freddo da look. AI primo, timido, accenno di primavera, cercando una sedia al bar ti ritrovi a passare in rassegna la parte superiore di parecchie natiche, alcune delle quali ingentilite da neri arabeschi tatuati che fanno interrogare sulla parte profonda del disegno, quella invisibile: dove andrà a finire? cosa rivelerà la trama complessiva? cosa apparirà unendo i trattini? E così via. Suprema sagacia dei produttori di abiti: risparmiare sul tessuto (che devono acquistare) e al contempo far pagare di più quei pochi centimetri che vendono.
Ma tale” astuzia della ragione” non potrebbe venir coronata dall’indubbio successo che ha senza la leva archimedica che fa girare le sfere cosmiche: la vanità. Femminile.
Sì, so di star proferendo qualcosa di massimamente politically uncorrect ma è un fatto che di girovita maschili scoperti non ve ne sia traccia.
Già: l’unisex è andato a farsi benedire da almeno dieci anni e la parola magica.
del mondo della moda (“seduzione”) si sta divaricando nei due sessi classici, così diligentemente ripartiti: i maschietti hanno come modello unico il tagliagole imbarcato nelle galere del XVII secolo, le femminucce la sgualdrinella dei quartieri proletari e multietnici statunitensi.
Vestiti da discoteca anche di giorno, anche al lavoro, anche a scuola, qualche preside sta cominciando a scocciarsi e a far presente che “la scuola” è l’equivalente del” lavoro” per gli adulti: luogo serio, dove si sta vestiti, appunto, e non seminudi. Lo stupore è che i giornali riportano la cosa senza che si scateni il finimondo: solo dieci anni fa sarebbero scesi in piazza i sindacati, le femministe (a proposito, ci sono ancora?), i radicali, i genitori e le nonne, l’incauto preside sarebbe stato sbattuto come il mostro in prima pagina, il provveditore l’avrebbe scaricato prima che il ministro scaricasse lui, le telecamere avrebbero inquadrato le “povere vittime della repressione fascista”, le quali si sarebbero esibite in caste osculazioni davanti ai microfoni, i sociologi avrebbero avuto l’ennesimo quarto d’ora di celebrità e i “benpensanti” sarebbero stati crocifissi al loro “moralismo”. Bene, la festa sta finendo e, ma guarda un po’, la vittoria americana in Iraq sta facendo dilagare panni mimetici e verdi militari ch’è un piacere. So bene che, a questo punto, qualcuno di voi, amati lettori, penserà che la vanità non è solo donna ma è anche uomo. Mi dichiaro fin da subito assolutamente d’accordo.
Epperò, la vanità solo estetica, mi spiace, porta statisticamente a un solo sesso. Vedete, certi attori belloni ci hanno provato, a farsi fotografare nudi sui calendari, anche loro. Ma non hanno neanche sfiorato le tirature da centinaia di migliaia di copie delle loro colleghe di sesso femminile, le quali, per lo più, non sono neanche attrici ma semplici soubrettes, starlettes o pure silhouettes da chiodo sul muro.
Qualcuno di quei maschi da gregoriano (nel senso del calendario, non del canto) si è accorto che la sua image sans voiles, dai muscoli lucidi e artatamente sudati, finiva .in non pochi casi su pareti omosessuali ed ha riflettuto sul mito della parità dei sessi. Che è un mito, appunto, tutto ideologico, che neppure le leggi sulle “pari opportunità” sono riuscite a inculcare.
Spero sinceramente che l’esempio di quei presidi pionieri dilaghi e, perché no, si giunga al giacca-e-cravatta scolastico come in Giappone o nei colleges inglesi (quando si sceglie un esempio, perché non puntare sui migliori?).
Sono perfettamente consapevole che, al solito, il clero si allineerebbe buon ultimo (ma è pur sempre meglio che niente) e finalmente qualche omeliante sostituirebbe i logorroici avvisi parrocchiali di fine messa con avvisi ben più utili alla salvezza. Esempio: in chiesa si viene col pancino al caldo ed avendo cura che, sedendosi, non si scoprano le terga; niente scollature, spalle e avambracci coperti, no agli abiti elasticizzati così aderenti da far sembrare solo verniciate le proprietarie. E così via.
Va bene, diamo anche ai maschi la loro parte: niente chewing-gum, via le mani dalle tasche e no alle posizioni stravaccate.
Devo anche dire, però, che è inutile far entrare in testa ai fedeli che la casa di Dio è il posto più serio che ci sia se, appena si siedono alla messa domenicale, li si accoglie con una schiamazzante performance da festival di sanremo rionale. La serietà, come nei pesci, parte dalla testa.
IL TIMONE N. 26 – ANNO V – Luglio/Agosto 2003 – pag. 52 – 53