Scontro tra fede e ragione nella religione degli antichi. Solo il Cristianesimo sarà in grado di armonizzarle. Resistendo alle critiche della filosofia
La teologia popolare dell’antica Grecia – quella, per intenderci, che si trova nei poemi omerici e in Esiodo (secoli IX-VIII a.C.) – era considerata già alla fine del VI secolo a.C. per quello che era: fatta di credenze e di superstizione, in contrasto con la teologia filosofica, espressione della riflessione e della razionalità delle varie correnti di pensiero sorte ben presto all’interno del mondo greco. Già la teologia filosofica di Senofane di Colofone, vissuto nel VI secolo a.C., affermava che «uno solo è il dio, il più grande fra tutti gli uomini e gli dei». Il pensiero greco era diffuso in tutti i Paesi del Mediterraneo, Roma compresa, almeno a partire dalla conquista romana della Magna Grecia, al principio del III secolo a.C.
I romani, a quel tempo, avevano già elaborato la propria religiosità in maniera autonoma e fortemente discordante da quella greca, anche se i più colti fra i Romani, come Cicerone, Varrone (I secolo a.C.) e l’imperatore Marco Aurelio (161-180 d.C.) – per citarne solo alcuni – ritennero inevitabile confrontarsi col pensiero greco, unico termine di paragone possibile sulle questioni di natura filosofica e, quindi, religiosa. W. Jaeger afferma che «ogni forma di comprensione, anche fra gente non greca, richiedeva la mediazione intellettuale del pensiero greco e delle sue categorie»: ciò veniva detto in merito alla cosiddetta “ellenizzazione” cioè alla “forma” greca del pensiero cristiano, ma anche per i secoli che ne avevano preceduto la nascita. Il fondamento di questo primato raggiunto dalla filosofia greca era dovuto alla libertà del pensiero greco, aperto a tutto ciò che riguardava la ricerca della verità. Ai filosofi era riconosciuta l’autorevolezza per approfondire gli aspetti etici e cosmologici ma soprattutto teologici, considerati essenziali per la vita di ogni uomo. Un primato quindi che discendeva dall’applicazione senza pregiudizi della ragione ai problemi esistenziali (anche se dalla ragione si passò al razionalismo e infine ad uno scetticismo privo di futuro) e che si concretizzava in dogmi morali e imperativi di comportamento. In definitiva, la filosofia aveva finito per adempiere alle funzioni della religione vera e propria.
Particolarmente ascoltati e seguiti furono gli insegnamenti di stoici ed epicurei i quali, nonostante si contrapponessero tra loro su alcuni aspetti, tuttavia condividevano l’esigenza di rispondere al bisogno religioso, proprio di ogni uomo, al quale gli dei della religione greca non avevano dato alcuna risposta esauriente. Sia gli stoici che gli epicurei trovarono ascolto presso le élites romane: i primi, in particolare, per una singolare coincidenza con la mentalità romana nella concezione dell’esistenza. Alla religiosità greca, sostenuta dalla ragione, si contrapponeva dunque la religiosità romana, nella quale assumono importanza, rispetto a quella greca, l’adesione personale e soprattutto l’autorevolezza della tradizione.
Questa sostanziale differenza fra la religiosità greca e quella romana è già presente nell’opera giovanile di Cicerone Sulla natura degli dei, in 3 libri, nella quale Cicerone, immaginando un dialogo al quale partecipano alcuni esperti di filosofia stoica, epicurea e accademica, espone e mette a confronto le rispettive “teologie”, dividendo il discorso sulla natura divina in quattro parti: le prove dell’esistenza degli dei, la loro natura, che sono essi a governare il mondo, che essi hanno a cuore la felicità degli uomini.
Il passo che risulta più significativo per noi (Sulla natura degli dei, III, 5) è l’intervento del pontefice massimo (la più alta carica sacerdotale della Roma pagana) Gaio Aurelio Cotta, seguace della dottrina filosofica professata nell’Accademia, dove un tempo aveva insegnato Platone. Cotta, al richiamo di un interlocutore che gli ricordava di essere Cotta e pontefice massimo, risponde così: «ricordarmi che sono un cittadino in vista e pontefice massimo mi spinge a difendere ciò che i nostri avi ci hanno tramandato intorno agli dei immortali, i riti, le cerimonie e gli obblighi religiosi. Io li difenderò sempre come sempre li ho difesi, né da ciò che ho appreso dagli avi sul culto degli dei immortali potranno smuovermi i discorsi di chicchessia, dotto o ignorante. Quando si tratta di religione io seguo T. Coruncanio, P. Scipione, P. Scevola, che furono pontefici massimi, piuttosto che uno Zenone, un Cleante o un Crisippo» (Cotta cita i nomi di alcuni filosofi stoici) «e sono persuaso che Romolo con i suoi auspici e Numa con l’istituzione dei riti abbiano gettato le basi del nostro Stato, che sicuramente, senza il favore degli dei immortali, non sarebbe potuto diventare così grande». Il rifiuto della filosofia in materia religiosa ripropone in certo qual modo in forma alternativa il dualismo fede-ragione, che qui sembrano inconciliabili per una questione di principio.
Dalle parole di Cotta emergono alcune verità: prima di tutto il peso decisivo della tradizione, a Roma, in materia religiosa (e il conseguente rifiuto di “novità” che ne pregiudicassero il primato: novus, in latino, assume il significato prevalente di “rivoluzionario”); il vincolo strettissimo fra il destino dello Stato e la religione (di qui la “religione di Stato” romana sulla quale i collegi sacerdotali dei decemviri e dei pontefici esercitavano un controllo rigidissimo); la convinzione che la strada intrapresa per garantire la grandezza di Roma – conservare le istituzioni religiose e praticare i culti degli antenati – fosse quella giusta; il primato della res publica (lo Stato) sulle esigenze dei singoli, con la netta prevalenza degli interessi della collettività, cioè del bene comune anteposto ad ogni vantaggio o esigenza individuali.
L’avvento del Cristianesimo si accompagnò al progressivo sgretolamento delle certezze in materia religiosa delle quali Cicerone era ancora convinto al principio del I secolo a.C. Al rapporto saldo e immutabile degli antichi romani con la divinità, funzionale alla conservazione del primato politico di Roma, si sostituì la fede in un Dio provvidente che aveva sostituito le pratiche religiose formali con la sua presenza.
RICORDA
«La religione antica, infatti, è crollata anche per la frattura fra il Dio della fede e il Dio dei filosofi, per la totale diastasi [incompatibilità] tra fede e devozione. […] la religione cristiana non avrebbe dovuto attendersi altra sorte, qualora avesse accettato un simile distacco dalla ragione». (Joseph Ratzinger, Introduzione al cristianesimo, Queriniana, 1969, 200313, p. 130).
Per saperne di più…
Werner Jaeger, Teologia dei primi pensatori greci, tr. it., La Nuova Italia, 1961.
Giovanni Reale, Storia della filosofia antica, Vita e Pensiero, 1977-1984 (varie edizioni successive).
Cicerone, Marco Tullio, Opere politiche e filosofiche, UTET, 1980-1986.
Joseph Ratzinger, Fede verità tolleranza: il cristianesimo e le religioni del mondo, Cantagalli, 2005.
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