Una rievocazione storica della grande battaglia che salvò la cristianità dal dominio ottomano. Le divisioni fra cristiani successive alla Riforma protestante e il tradimento della Francia. La concordia ritrovata anche grazie all’opera del beato Marco d’Aviano
L’attuale “non-guerra” in corso contro la Libia legittima ogni pessimistica considerazione sulla tenuta morale e sull’unità delle nazioni europee. Bombardare città facendo sì che non si sappia troppo in giro; proclamare la necessità di aiuti umanitari senza disporre misure sostanziali ed efficaci verso coloro che attraversano il Mediterraneo, annegando a centinaia; trattare con chiunque abbia potere, non in nome di principi morali fondamentali, ma con l’obbiettivo di strappare concessioni petrolifere in un prossimo futuro. Grettezza, cinismo, allergia al rischio e alla lungimiranza: e non si tratta solo di difetti dei governanti, in quanto questi sanno di dipendere dall’opinione pubblica dei rispettivi Paesi, gretta e cinica anch’essa. Una simile situazione può fare pensare con nostalgia a un tempo lontano di eroiche imprese, nel quale queste bassezze non esistevano. Nel caso dell’assedio di Vienna del 1683 è abbastanza istintivo immaginare le cariche di cavalleria degli ussari alati polacchi e pensare che quella fosse tutta la realtà. Le divisioni dell’Europa cristiana erano, invece, molto più drammatiche e laceranti di quelle odierne e i principi erano dominati da meschinità quasi invincibili.
La divisione dell’Europa in seguito alle “guerre di religione”
Nel 1682, quando iniziò la grande campagna militare che doveva portare il Turco alle porte di Vienna, l’Europa era appena uscita dall’apocalisse della Guerra dei Trent’anni, nel corso della quale intere zone della Germania erano state spopolate. È bene ricordare che quel conflitto, ricordato come “guerra di religione”, aveva visto combattere fra loro luterani sassoni e calvinisti boemi oltre che gli eserciti delle cattolicissime Francia e Spagna. Come in molti altri casi, nelle cosiddette “guerre di religione”, la religione fu un pretesto e uno strumento di potere in mano ai principi. Nella seconda metà del XVII secolo l’Impero germanico, per quanto indebolito, era riuscito, comunque, a rinsaldare la propria struttura. Era una situazione paradossale: un impero di proporzioni smisurate era, in realtà, farraginosamente tenuto insieme solo dalla volontà dei suoi principi; eppure, proprio per questa sua debolezza, vi era una maggiore libertà, e regnanti cattolici e protestanti collaboravano contro i comuni nemici, a oriente e a occidente. E questi nemici erano due Stati assoluti, entrambi formidabili e dotati di grandi eserciti e smisurate ricchezze: la Francia e l’impero Ottomano. Se, infatti, le armate turche erano state fermate, a stento, alla battaglia della Raab (1664), molto più pericolosa e violenta era stata l’aggressività di Luigi XIV (1638-1715), che aveva spostato verso oriente i propri confini per più di 100 chilometri, conquistando Metz, Verdun, Toul, la Lorena e la Franca Contea per poi guadagnare anche larghe parti dei possedimenti spagnoli in Olanda. In effetti è vero quello che il conte palatino Filippo Guglielmo (1615- 1690) ebbe a scrivere al beato Marco D’Aviano (1631-1699) il 15 settembre del 1690: «Habbiamo un Turco cristiano peggior del barbaro» proprio riferendosi al re Sole. L’intesa fra i due Stati assoluti era più stretta di quanto molti storici abbiano rilevato e risaliva addirittura all’alleanza fra la Sublime Porta e il re Francesco I (1494-1547). Giustamente John Stoye, nella sua opera fondamentale L’assedio di Vienna, ricorda come l’ambasciatore francese Guilleragues, nel 1682, comunicò al sultano che la Francia avrebbe sostenuto la Polonia in caso di attacco turco, ma non avrebbe fatto altrettanto con l’Impero asburgico.
L’ambizione ottomana
Per il gran Vizir Kara Mustafà che, di fatto, deteneva il potere assoluto nominalmente in capo all’inetto sultano Maometto IV, l’occasione era ghiotta. Nei dieci anni precedenti, i turchi avevano sferrato una serie di offensive in Polonia e in Ucraina, alternando successi a sconfitte ma sempre imponendo le proprie condizioni di pace. Pacificata così la frontiera nord orientale, Kara Mustafà aveva, comunque, la necessità di impegnare un esercito turbolento. La guerra con Venezia si era conclusa nel 1669 con la conquista di Creta e la tregua ventennale con l’impero sarebbe spirata soltanto nel 1684, ma la possibilità concretissima di conquistare Vienna era davvero troppo allettante. L’Impero era isolato, diviso al suo interno, minacciato alla frontiera renana dalla Francia. La presa della capitale degli Asburgo avrebbe proiettato Kara Mustafà al vertice della gloria, rendendo il suo nome ancora più imperituro di quello stesso Maometto il Legislatore. E poi, dopo Vienna, nessun traguardo era più precluso. La Germania, priva di un imperatore, sarebbe stata assoggettata negli anni a venire, un pezzo dopo l’altro, eventualmente spartita con la stessa Francia. La frontiera alpina con l’Italia sarebbe stata varcata e anche Roma sarebbe divenuta una facile preda. Una simile prospettiva avrebbe fatto girare la testa a chiunque, e Kara Mustafà era, anche rispetto allo standard dell’epoca, assai affamato di gloria e di potere. L’occasione venne dalla rivolta dei protestanti ungheresi contro l’imperatore Leopoldo. Nel gennaio del 1683 venne compiuto un gesto simbolico ma ferale: le code di cavallo vennero innalzate davanti al Palazzo Topkapi in direzione dell’Ungheria. I preparativi compiuti da Kara Mustafà furono, a detta di tutti i testimoni, semplicemente sbalorditivi. L’armata che si concentrò ad Alba Reale comprendeva, oltre all’esercito ottomano, anche i calvinisti ungheresi e i tatari di Crimea per un totale di 150mila uomini. Di contro stava il piccolo esercito imperiale di Carlo di Lorena, che non poté far altro che attuare una tattica ritardatrice, badando a non farsi tagliare la ritirata dai tatari.
Sulle vicende dell’assedio di Vienna e sulla grande battaglia del 12 settembre 1683 è stato scritto molto e non è il caso di ripetere cose già note. In effetti, l’atto tattico di quella grande giornata vide un esercito moderno, quello europeo e cristiano, alle prese con una formidabile armata tardo medioevale, e l’esito fu abbastanza scontato. Ciò che non era prevedibile era la formazione di questa grande alleanza, alla quale posero mano diplomatici e politici di rango oltre al mai abbastanza ricordato Padre Marco d’Aviano. Fu lui, già nel 1682, ad esercitare una profonda influenza spirituale sull’imperatore Leopoldo e a guarire miracolosamente Carlo di Lorena da una frattura alla gamba, mai sufficientemente saldata. Sempre Padre Marco diede il proprio contributo affinché il principe elettore di Baviera, Massimiliano II Emanuele (1662-1726), abbandonasse l’alleanza con la Francia. Nel gennaio del 1683 anche la Sassonia luterana e l’Hannover scesero in campo a fianco dell’Austria. L’influenza degli inviati del Papa spinse il re polacco Jan Sobieski (1629- 1686) alla guerra contro gli ottomani e il colpo decisivo fu sferrato dal servizio segreto asburgico, che scoprì come il tesoriere Giovanni Andrea Morsztyn (1621-1693), il più influente ministro di Sobieski, fosse sul libro paga di re Luigi XIV. Lo scandalo fu enorme e la Dieta polacca votò l’intervento il 31 marzo 1683, mettendogli a disposizione 40.000 uomini.
La “miracolosa” alleanza europea
Quello che sembrava incredibile era avvenuto: l’Europa era finalmente unita (ad eccezione della Francia e dei Paesi nordici) contro un nemico comune. Nell’estate del 1683, mentre Vienna resisteva eroicamente contro gli assalti turchi, da tutto l’impero accorrevano milizie e volontari per essere inquadrati nell’armata di soccorso ed è giusto ricordare i nomi di alcuni loro capi: il principe Georg F. von Waldeck (1620-1692), veterano della Raab, guidava 9mila uomini dai territori dell’Alto Reno; Massimiliano conduceva 10mila bavaresi; l’elettore del Brandeburgo protestante dava 1.200 soldati e Sobieski altri 15mila. Il piccolo contingente dell’Hannover era guidato da quello che sarebbe diventato re Giorgio I di Gran Bretagna (1660-1727). La grande armata cristiana si concentrò a Tulln e constava di 70mila uomini, ben armati e addestrati. Padre Marco D’Aviano non riuscì a raggiungere l’armata che nel mese di agosto e per un intoppo che, oggi, può apparire incredibile: il 18 luglio 1683, ad assedio già iniziato, il cappuccino scriveva all’imperatore di essere impossibilitato a raggiungerlo perché il Padre generale dell’Ordine non gli aveva ancora concesso l’“ubbidienza” di poter usufruire di una carrozza, anziché del solito “caval di San Francesco”. Il 7 agosto il cardinal Alderano Cybo (1613-1700), Segretario di Stato, scavalcava la procedura ordinaria e concedeva il permesso a padre Marco che, non appena ricevutala il 14 agosto, si mise in strada. Il suo intervento fu essenziale per il mantenimento dell’alleanza, poiché Sobieski aveva dichiarato di non voler sottostare agli ordini dell’imperatore: questi seguì il consiglio del d’Aviano e non si recò all’accampamento dell’armata, ingoiando l’orgoglio ferito e salvando l’Europa.
La Messa prima della battaglia
L’ultima Messa solenne fu celebrata da padre d’Aviano l’8 settembre, festa della Natività della Vergine, e Sobieski fece da chierichetto, davanti ai generali e alla migliore nobiltà dell’Europa centrale, in ginocchio in un’ora decisiva per la storia dell’Occidente. Il 9 l’esercito raggiunse il Wienerwald, le colline boscose a ovest di Vienna, e l’11 il colonnello Donat Johann von Heitersheim Heissler poté raggiungere il monte Kahlenberg, lasciato incustodito dai turchi. Alle sentinelle in veglia sui bastioni parve di sognare quando videro balenare un fuoco di segnalazione: l’armata era giunta, e non un giorno troppo presto. Vienna stava per cadere e subito furono lanciati razzi rossi per segnalare l’estremo pericolo in cui si trovava la città. Ancora un giorno e mezzo, forse due e la città sarebbe caduta. Sorgeva l’alba dell’11 settembre e l’esercito cristiano si dispose a battaglia dopo aver superato lo sgomento causato dalla vista dell’immenso accampamento ottomano.
Il 12 mattina, Sobieski fece celebrare Messa un’ultima volta. Poi, finalmente, cominciò l’attacco e la disfatta ottomana si delineò quasi subito. Quasi altrettanto rapidamente rinacquero dispute e inimicizie dopo il trionfo. Sobieski mise le mani sull’enorme bottino e i sassoni tornarono subito in patria. Padre Marco, però, rimase al fronte, componendo le liti e progettando i servizi logistici, indispensabili per il proseguimento delle operazioni fino alla definitiva sconfitta dell’esercito ottomano, mentre Kara Mustafà finiva strangolato da emissari del sultano. L’impero asburgico aveva superato una prova tremenda e altre ne avrebbe affrontate, dando vita a un organismo sovranazionale, multireligioso, multiculturale. Ma per suscitare un miracolo da questa debolezza ci era voluta la dedizione di un popolo, una unità fra cristiani di diverse confessioni e l’opera di un santo. Ed è tutto questo che dovrà essere ricuperato per superare le prove che attendono l’Europa di oggi.
IL TIMONE N. 105 – ANNO XIII – Luglio/Agosto 2011 – pag. 22 – 24
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