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15.12.2024

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Virtù teologali
31 Gennaio 2014

Virtù teologali


Che cosa significa avere fede? Accogliere quanto Dio ha rivelato sulla base della Sua autorità. Credere non significa spiegare tutto, ma accogliere la Rivelazione, con fiducia e anche attraverso una riflessione intellettuale. La fede come virtù, da coltivare e fare crescere

Per “fede” la Chiesa cattolica (vedi il Concilio Vaticano I) intende il «credere esser vero ciò che ci viene rivelato da Dio». La Chiesa assume il concetto di fede cattolica, quella che si chiama fede “teologale”, “divina” o “soprannaturale”, dal concetto corrente della fede umana o del credere umano.

Credenze umane e fede divina
Se io per esempio mi trovo in una città a me sconosciuta e devo trovare una via, posso interrogare una persona del luogo, e chiedergli: «dov’è via Mazzini?», supponendo che costui mi dica la verità, per cui, al suo dirmi: «è la seconda strada a sinistra», io gli credo. Credere vuol dire istruirsi presso una persona competente nella quale abbiamo fiducia su di una materia circa la quale non possiamo ricevere una dimostrazione o avere l’evidenza.
Questo “credere” è il paradigma umano della fede cristiana. Per capire che cosa vuol dire “credere” nel senso cristiano, per capire che cosa è l’atto di fede, dobbiamo partire da questo “credere”, che è un atto comunissimo, che compiamo ogni giorno nei nostri rapporti umani: crediamo a cosa ci dice il medico, crediamo a cosa ci dice il giornalaio, crediamo a cosa ci dice l’amico, crediamo a cosa ci raccontano i giornali.
Da notare che questo credere non c’entra con l’opinare, ossia l’esprimere un parere in base a una nostra impressione o esperienza personale, senza averne certezza ma anzi col timore di poter sbagliare. È vero che usiamo la stessa parola: credo; ma i significati sono diversi. Un conto è quando dico: credo che domani pioverà, credo che mio cugino sia morto dieci anni fa, credo che tu non sia sincero; e un conto è credere a quello che ci dice una persona competente, benevola e affidabile su di una materia a noi poco nota. Nel primo caso non abbiamo certezza e sbaglieremmo se, fondandoci su di una semplice opinione che può mutare o essere sbagliata, o fondandoci sulla semplice apparenza o una semplice ipotesi, ci dichiarassimo certi come se possedessimo la verità. È peccato di presunzione dare per certo ciò di cui non siamo sicuri.
Nel primo caso, invece, fondandoci sulla autorevolezza e l’affidabilità comprovate della persona che ci rivela un dato circa il quale sappiamo che è competente, ci sentiamo sicuri, anche se non sempre sicurissimi, perché sappiamo che non è escluso in fin dei conti che quella persona si sbagli, oppure possiamo esser stati troppo facili a credere, oppure, caso deprecabile ma non impossibile, quella persona ci vuole ingannare.
Nel caso del passante della strada non ci sentiamo obbligati ad esigere da lui delle prove di credibilità, non ne avremmo né il tempo né l’agio e neppure lo riteniamo necessario, data in genere la non eccessiva importanza dell’informazione che desideriamo. Se quel passante si è sbagliato, pazienza, chiederemo a un altro, diventando assai improbabile che si sbagli anche quest’altro.
Ma se entrano in gioco interessi vitali: a chi affidare il nostro patrimonio? Quale chirurgo potrà operarci validamente? A chi chiedere con fiducia quale può essere la soluzione di un difficile problema morale? La comune saggezza o prudenza mi dice che non posso fidarmi del primo che capita, ma sento il bisogno di ascoltare solo chi mi dà prove serie di affidabilità, perché troppo importanti sono i valori in gioco: se dovessi essere ingannato, sarebbe un disastro.

Due vizi opposti: credulità e diffidenza eccessiva
Nella questione generale del credere, esistono due eccessi viziosi: o la troppo facile credulità, che potremmo chiamare dabbenaggine, o l’eccessiva diffidenza, che è il peccato di incredulità. Questo vale per i rapporti umani ma anche per il problema della fede religiosa, della fede cristiana. Il vero credente non è un credulone: il fideismo e il fanatismo non hanno mai salvato nessuno. Ma non è neppure un diffidente, il che denota una cecità mentale e una durezza di cuore che mettono in pericolo la salvezza.
Inoltre, la fede non è, come molti credono oggi, un’«esperienza o intuizione atematica e preconcettuale originaria», ma è un sapere mediato e preparato da un’accurata e responsabile indagine, oggetto dell’insegnamento dell’apologetica, che ogni missionario, catechista o evangelizzatore deve conoscere per condurre gradualmente – Tommaso parla di manuductio – le anime all’incontro con Cristo.

La dimensione concettuale della fede
La fede ha un’essenziale dimensione concettuale. Essa comporta l’accoglienza delle formule dogmatiche proposte dalla Chiesa. Ha un carattere squisitamente dottrinale: è la dottrina di Cristo. Chi nega o sottovaluta o rende mutevole o relativizza o soggettivizza questo aspetto dottrinale, quale che sia il pretesto sotto il quale si nasconde, distrugge la fede.
Anche la cosiddetta fede implicita, la quale, in certe condizioni, può essere salvifica, non rinuncia del tutto al concetto, ma si limita a credere, con nozione di Dio almeno implicita, come dice il Concilio Vaticano II (Lumen Gentium, 16), che «Dio esiste e che Egli ricompensa coloro che lo cercano» (Eb 11,6).
La cosiddetta “oscurità” della fede non significa l’assenza di concetti, ma semplicemente il fatto che l’intellegibilità del dato rivelato è così elevata, che supera la nostra capacità di comprensione, sicchè l’al di là di questa comprensione noi lo ignoriamo e per questo viene rappresentato con l’immagine della “tenebra” o, come dice S. Giovanni della Croce, della “notte”, mentre ciò che noi comprendiamo di questo dato è per noi luce luminosissima. La fede, dunque, dal lato che riguarda noi, è luce; ma dal lato che riguarda Dio è tenebra o mistero impenetrabile o, potremmo anche dire, come dice S. Paolo, una «luce inaccessibile» (I Tm 6,16).
Il nostro modo di concepire è finito, ma il contenuto del concetto – il dato di fede – è infinito. Per questo, se si vuol parlare di “superamento” dei concetti, esso riguarda il modo, non il contenuto. Tuttavia, siccome ciò che comprendiamo è legato al modo, ecco che ciò che eccede questo modo ci appare, come dice S. Paolo, “incomprensibile” e quindi ineffabile. Da qui il silenzio dell’esperienza mistica, vertice sommo dell’esperienza di fede.

Fede umana e fede teologale: le differenze
Il meccanismo psicologico che conduce alla fede umana assomiglia a quello che conduce alla fede teologale. Ma ci sono anche delle grandi differenze, che sono di tre ordini: primo, i valori in gioco nella fede teologale sono immensamente superiori a quelli relativi del corrente credere quotidiano. Qui certo potremo avere questioni di salute, di lavoro, di vita associata, di metter su famiglia; ma là si tratta di vita eterna o dannazione eterna, di santità o di empietà, di dar la propria vita o di tenersela per sé.
Secondariamente, e per conseguenza, l’atto della fede teologale non può essere semplicemente umano-psicologico, ma dovrà esser proporzionato al divino oggetto, – il mysterium fidei – rivelato da Gesù Cristo e mediato, trasmesso e interpretato dal Magistero della Chiesa. Dovrà essere, cioè, soprannaturale, ispirato dallo Spirito Santo e sostenuto dalla grazia di Cristo.
Il che vuol dire, terzo, che l’atto della fede teologale non può essere semplicemente la conclusione di un ragionamento come posso fare quando si tratta di credere, per esempio, a un medico: gode di universale fama, ha guarito diversi miei amici, è un premio Nobel della medicina, dunque devo credergli. Siccome mi rendo conto che devo credergli, con un atto della mia semplice volontà, gli credo.
Ed ecco prodotto l’atto della fede umana, prodotto dalla mia semplice ragione e dalla mia volontà, anche se resta vero che – e questa è una caratteristica di ogni tipo di fede, umana o divina – la mia ragione non è in grado di avere l’evidenza della verità di ciò che mi vien detto, ma bisogna che io, con la mia volontà, spinga il mio intelletto, di per sé non necessitato, ad aderire alla proposizione che mi vien significata o comunicata.
Il terzo punto vuol dire allora che la fede teologale, benchè preparata da un’indagine razionale come nei casi più seri della fede umana, non è sufficientemente causata da queste previe considerazioni umane, ma è causata direttamente da Dio; è, come si dice tradizionalmente, dono di Dio, per l’autorità del Quale – che non s’inganna né può ingannare – io aderisco col mio intelletto e la mia volontà a quanto Egli mi rivela o mi ordina di fare.

La fede come virtù
La fede teologale è dunque una virtù, se virtù è una disposizione stabile volontaria e intelligente a compiere il bene: infatti, quale bene maggiore è ciò a cui prepara la fede, se non la salvezza eterna e la beatitudine celeste?
Se virtù è compimento del dovere, quale dovere più urgente e più importante che credere a Gesù Cristo e alla sua Chiesa, che tanti segni ci hanno dato e ci danno di credibilità, nonostante le calunnie e le menzogne dei loro nemici, nonché la debolezza dei suoi membri?
Se virtù elevata è quella che compie un atto nobile per motivi nobili e per un nobile fine, come non vedere nella virtù della fede una virtù nobilissima? Nobile infatti è il suo atto soprannaturale, nobili sono i motivi o incentivi umani (oggetto dell’apologetica: i praeambula fidei), dettati dalla considerazione dei miracoli e delle profezie di Cristo e dalla storia della santità della Chiesa (come insegna il Concilio Vaticano I); nobilissimo è il motivo formale del credere, che è l’autorità stessa di Dio che si rivela e mi parla; nobile è il fine, ossia, come si è detto, la vita di grazia dei figli di Dio in vista dell’eterna beatitudine.
Il credere, come abbiamo visto, non è adesione al vero necessitata dall’evidenza dello stesso vero; questo semmai, quando è confortato dalla dimostrazione, è l’atto della scienza; se invece è attingimento diretto della realtà è atto dell’esperienza; invece l’atto di fede è atto libero e volontario, per il quale la volontà, considerati i validi motivi di credere, determina l’intelletto all’atto stesso della fede sotto l’impulso dello Spirito Santo.
Se l’atto della fede teologale è un atto volontario, ciò vuol dire che, in forza dell’esistenza del libero arbitrio, è data purtroppo la deprecata possibilità che l’uomo volontariamente rifiuti questo atto o perché si sottrae all’ispirazione dello Spirito – quello che il Vaticano I chiama pius credulitatis affectus –, e qui abbiamo il peccato di incredulità; o perché abbandona una data verità di fede che in precedenza aveva accolto, e questa è l’eresia; o perché abbandona tutte le verità di fede che in precedenza aveva accolto, e questo è il peccato di apostasia.
Ma una caduta nella fede non è irreparabile: come per ogni peccato, è possibile pentirsi, rialzarsi, correggersi, convertirsi, tornare al Signore. L’11 ottobre 2012 comincia l’Anno della Fede, opportunamente indetto dal Santo Padre, proprio perché, ritengo, tra l’altro, sono molti i peccati che oggi si commettono contro la fede, magari a volte senza rendersene conto.
Questo Anno benedetto è un’occasione preziosa e propizia, per coloro che avessero abbandonato la fede, a ritrovarla; per coloro che fossero caduti in qualche eresia, a correggersi; per coloro che resistono alla verità, ad arrendersi al dolce giogo di Cristo, obbedendo al Quale troveranno quella verità in nome della quale vorrebbero fuggire dalla Verità.



Dossier: UN "ANNO DELLA FEDE"

IL TIMONE  N. 116 – ANNO XIV – Settembre/Ottobre 2012 – pag. 36 – 38

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