La «fede» e la «fine»
Torniamo, almeno qualche volta, ai “fondamentali” come oggi usa dire, rifacendosi al solito americano: the fundamentals, le basi, l’essenza, le radici. Dunque, torniamo, noi cristiani, alla Scrittura: per approfondirne il senso ma anche per chiarire qualche equivoco.
Prendiamo, allora, la domanda di Gesù, in Lc 18,8 che ha inquietato tanti e che, in effetti, suona enigmatica. Traduciamo letteralmente dall’originale greco: «Ma il Figlio dell’uomo, venendo, ancora troverà la fede sulla terra?». Prospettiva sconcertante, soprattutto se messa a confronto con altre affermazioni, come «il cielo e la terra passeranno, ma le mie parole non passeranno»; o il «non temere piccolo gregge…». Quel «sulla terra» di Luca è, nell’originale, un epì tes ghes. Ma, attenzione: come conferma lo strumento più autorevole, il Grande Lessico del Nuovo Testamento («il Kittel» come è chiamato nel giro degli studiosi), la parola ghé, nel greco biblico, può indicare sia la “terra” intesa come “mondo” sia la “Terra” per eccellenza. Cioèla Terra Santa, il sacro suolo di Israele. Potrebbe darsi, dunque, che Gesù si chiedesse se, alla Parusia, avrebbe trovato ancora la fede non altrove, ma nello spazio geografico, umano, religioso che era suo.
Così, però, si placa un’inquietudine ma potrebbe sorgerne un’altra: stretta tra l’ostilità degli israeliani e dei palestinesi, la comunità cristiana sta estinguendosi, laggiù. C’erano città come Betlemme e Nazareth che sino a non molto tempo fa erano a maggioranza cristiana, mentre ora questa è una minoranza in continua diminuzione. A Gerusalemme un battezzato è ormai una rarità. Dunque, «venendo», il Figlio dell’uomo potrebbe davvero non trovare più la fede in Lui «sulla Terra», quella Santa per eccellenza. Un segno escatologico? Anche da questa estinzione delle comunità cristiane tra Israele e Palestina dovremmo intuire che il Dies irae è prossimo? Chissà. In ogni caso, per quanto mi riguarda non sono mai stato attratto dalla ricerca di segni sulla fine né mi preoccupa più di tanto il termine apocalittico della storia. So che per me, come per tutti, ci sarà di certo una “fine del mondo”: che è poi – detto in modo tanto semplice quanto terribile – la morte di ciascuno. Anzi, in un suo appunto Pascal, ricordato che la tragedia della morte sta anche nella sua solitudine, osserva che potrebbe esserci una sorta di consolazione nel morire tutti insieme. Tanto da augurarsi il ritorno del Cristo durante la sua vita. Non mi spingo a tanto, anche perché non dimentico che la morte può essere, sì, collettiva ma ciò che conta – il giudizio – sarà sempre e solo personale.
Il sogno della ragione
A proposito di, come dire?, equivoci linguistici come le traduzioni di Luca 18,8.
Soltanto grazie a un articolo recente della Civiltà Cattolica (“Iconografia cristiana e pittura rivoluzionaria”), mi sono reso conto che io stesso ero caduto, da sempre, in una trappola, probabilmente non casuale ma favorita dalla cultura “illuminista”.
È notissima, cioè, l’acquaforte di Francisco Goya, nella serie dei «Capricci», che rappresenta un uomo addormentato seduto a un tavolo che è, chiaramente, una scrivania di lavoro, visto che sopra vi sono carte e penne. Attorno al dormiente, in un cielo di tenebra, svolazzano enormi civette e pipistrelli, in un lugubre stormo. Sulla base della scrivania, lo stesso Goya ha scritto la frase divenuta celeberrima: «EI sueno de la razòn produce monstruos».
Ebbene: giocando sul fatto che, in spagnolo, sueno, significa sia “sogno” che “sonno”, in italiano la frase del pittore aragonese è quasi sempre stata tradotto come: «Il sonno della ragione produce mostri». Lo stesso in francese: «Le sommeil de la raison…». Lettura, come dicevo – e come si vede chiaramente -, “illuminista”, un memento agli uomini perché veglino, perché al di là del razionalismo non c’è che ombra, mostri, disastri. Monstruos, appunto. E invece, come dimostra lo specialista della Civiltà Cattolica, Goya intendeva, qui, sueno nel senso di “sogno”. Dunque, a produrre “mostri” è proprio il razionalismo, è la pretesa della ragione di esaurire il reale. I disastri sono provocati da quei “sogni della ragione” che sono le ideologie moderne, proprio quelle che facevano la loro prova sanguinosa giusto in quegli anni della fine del Settecento. Il messaggio di Goya non è, dunque, contro gli “oscurantisti” ma, al contrario, contro gli “illuminati”, contro quegli intellettuali di cui è simbolo il dormiente accanto a carte dove ha di certo steso uno di quei piani per “il paradiso in terra” che, messi in pratica, sollevano il coperchio degli inferni. Per citare il commento della rivista dei gesuiti: «Goya mostra che è falsa la concezione di un uomo buono per natura (caposaldo del pensiero di Rousseau, che è il grande maestro del giacobinismo) che si potrebbe creare con la libertà, i diritti umani, l’educazione, l’eguaglianza. Le forze della Ragione riescono soltanto a mascherare i lati oscuri dell’animo umano, i dissidi, gli istinti; ma l’ira devastatrice, l’aggressività, la paura non possono essere ridotte al silenzio.
Nel punto culminante della Rivoluzione francese, ai tempi di un Terrore basato sulla “Virtù”, questi elementi rispuntano in primo piano e tornano a trionfare… Il sogno della ragione, che in un primo tempo è bello ed esaltante, si trasforma presto in un incubo popolato da mostri».
Stiamoci attenti, dunque: qui si è cercato (e si è riusciti, va riconosciuto) a rovesciare interamente un messaggio importante, menandoci per il naso con una traduzione manipolata. Una delle tante trappole, dicevo, di una certa cultura.
«Viva le catene»
A conferma di quanto poco gli spagnoli del tempo (e dei quali Goya fu un geniale quanto tragico interprete) amassero «i sogni della ragione», c’è un episodio che mi ha sempre colpito. Come si sa, la loro indomabile rivolta fu il cancro che corrose l’impero napoleonico e alla fine contribuì potentemente al suo crollo definitivo. Si deve tra l’altro agli spagnoli – e agli inglesi che li affiancavano – la vittoria di Bailén: la prima disfatta sul campo di un esercito francese, una sconfitta che annichilì Napoleone che si rese subito conto che lì era stato distrutto quel suo mito di invincibilità che paralizzava gli avversari. Più che come invasori, i francesi erano odiati come portatori di quell’illuminismo di cui gli spagnoli, attaccati alloro cattolicesimo radicale, non solo non sapevano che farsene ma in cui vedevano lo zampino dell’Anticristo. Quando finalmente il Tiranno còrso finì in esilio, Ferdinando VII (EI rey desiato, il re desiderato) rientrò solennemente nella sua capitale. Lungo le strade erano assiepati i madrileni. La folla dei popolani, raccontano i cronisti, gridava all’unisono e a squarciagola: «Viva las cadenas». Viva, cioè, le “catene dell’assolutismo” da cui i francesi, dicevano, li volevano liberare. Roba da nascondere – mi raccomando! – ai tanti cultori attuali, anche tra i cattolici, del politicamente corretto: l’indignazione potrebbe essergli fatale.
Shoah: proibito far paragoni
Come si sa, il prossimo agosto la Giornata mondiale della gioventù si terrà a Colonia. Per gli ecumenisti tedeschi era motivo di orgoglio che anche la comunità ebraica si fosse messa a disposizione per un aiuto nell’organizzazione dell’evento.
Ma l’idillio si è rotto il giorno dell’Epifania, festeggiata a Colonia con particolare solennità, visto che nel duomo della città renana sono conservate le presunte reliquie dei Re Magi, trafugate a Milano dal Barbarossa.
È successo, infatti, che nell’omelia della messa di quel giorno l’arcivescovo, il cardinal Joachim Meisner «ha paragonato»(cito da un comunicato) «la pratica dell’aborto con i crimini di Hitler e di Stalin».
IImmediata e violenta la reazione del dottor Paul Spiegel, presidente della comunità ebraica tedesca: con una simile frase, ha denunciato indignato, il cardinale avrebbe «offeso la memoria di milioni di vittime dell’Olocausto». Dunque, niente collaborazione israelitica alla Giornata della prossima estate. Quella che chiamano la Shoah deve restare un crimine unico, imparagonabile, al di là di tutte le infamie: ogni altra tragedia non è, al confronto, che secondaria.
Sono atteggiamenti di questo genere che inducono a rileggere il libro, L’industria dell’olocausto, sottotitolo Lo sfruttamento (da parte di ebreij della sofferenza degli ebrei, Rizzoli, di Norman Finkelstein, il docente ebreo figlio di sopravvissuti allo sterminio. In quelle pagine, l’insospettabile Finkelstein spiega bene quale sia il meccanismo che ha portato a una strategia tenace e implacabile per imporre l’idea che nulla di più grave si è verificato nella storia che l’antisemitismo nazista. È proprio su quella pretesa “unicità”, su quella “inconfrontabilità” che si regge una “industria”, appunto, “dell’Olocausto” che procura a lobbies israelitiche grandi vantaggi, a cominciare da quelli morali.
Che cosa sono milioni di feti strappati all’utero della madri, che cos’è l’aborto di massa rispetto alla Shoah? Si informi e si adegui quel cardinale arcivescovo di Colonia!
Strano ecumenismo
A proposito di ecumenismo. Tra le ragioni della crescente avversione dell’lslam contro l’Occidente c’è la politica non solo di tolleranza ma addirittura di privilegio verso l’omosessualità, sino al punto di concedere (o, almeno, di accettare di discutere seriamente) la possibilità del matrimonio tra persone dello stesso sesso. Anche tra i cattolici “più avanzati” – come amano autodefinirsi – non sono pochi quelli che pure in tema di omosessualità (come per ogni altra questione) si adeguano alla vulgata del politicamente corretto. Sono gli stessi cattolici che più spingono per un dialogo ecumenico allargato al massimo.
Strano ecumenismo che, magari, potrà interessare qualche anglicano, la cui chiesa ordina (ma a prezzo di scismi) vescovi conviventi con vigili del fuoco o fucilieri della Regina, ma che scandalizza oltre un miliardo di credenti nel Corano che ha parole di fuoco contro il “commercio carnale tra maschi”. È l’ecumenismo di chi chiede l’ordinazione sacerdotale per le donne, compiacendo ai superstiti, sempre più sparuti, di qualche confessione storica protestante ma allargando la frattura con centinaia di milioni di cristiani ortodossi per i quali il prete-femmina è tra le aberrazioni peggiori. E così per tante presunte “aperture” che, in realtà, provocano danni gravi proprio alla causa del dialogo tra confessioni e religioni.
Comunione sulla mano
Sono nel duomo di Desenzano, entra una coppia di turisti con una bambina. Sono francesi. Appena entrati, la donna si toglie il cappello e si dà da fare per toglierlo anche alla figlia. Per rispetto, si sa. Guardo ed ho conferma del fatto che, per l’uomo medio occidentale, il cristianesimo è ormai alle spalle: un ricordo remoto e confuso.
Ingiusto, peraltro, prendersela con la “nequizia dei tempi”: chi, se non la Chiesa stessa, proprio quella Chiesa che voleva “tornare alla Scrittura”, ha scelto di andare contro un comando esplicito della Chiesa stessa (1 Cor, 11, 2 ss.) abolendo l’obbligo di sempre per le donne di coprirsi il capo quando sono in chiesa? Come stupirsi se questi poveri francesi sono convinti che tutti debbano scoprirsi entrando in un luogo sacro?
È per considerazioni, amare, di questo tipo che l’altro giorno – sbagliando, s’intende: mi sono poi pentito del tono tagliente – ho rischiato di maltrattare un vescovo che mi aveva telefonato. Per l’Anno dell’Eucaristia, voleva che partecipassi, ovviamente con una relazione, a una manifestazione che intendeva organizzare nella sua diocesi. Quel presule era tra coloro che avevano insistito per la comunione nella mano. Misura che non ha altro motivo se non la “demitizzazione”, la “desacralizzazione” dell’eucaristia. Toglierla dalle mani del solo sacerdote, permettere a chiunque di maneggiarla, serve solo al tentativo di ridurre la messa cattolica al “pasto” dei protestanti; serve a far passare l’idea che l’ostia consacrata non è che pane, semplicemente caricato di simboli immateriali, non certo di una misteriosa “materialità”. La coscienza inquieta, malgrado tutto, della Gerarchia che ha permesso di gettare l’eucaristia nelle mani di chiunque si presenti è rivelata dalla precisazione un po’ ipocrita che chiude il decreto: non si rifiuti la comunione a coloro che desiderano riceverla in bocca. Questo – è detto testualmente – è un “diritto” cattolico che va salvaguardato. Pensiero contraddittorio, come si vede: se mettere l’ostia in mano è cosa buona, perché concedere ancora ciò che buono evidentemente non è, visto che lo si è modificato?
Sta di fatto che, irritato, ho spiegato al monsignore al telefono che non intendevo partecipare alla sue “giornate eucaristiche”, che mi guardavo bene dall’accettare di parlare della “riscoperta dell’eucaristia” su invito di chi si era dato da fare per celare il Mistero, per attenuare gli evangelici “scandalo e follia”, che trovano uno dei loro vertici proprio nella dottrina cattolica della Transustanziazione.
Non tutto ha un prezzo
Proprio mentre sono al computer e scrivo queste note, mi telefona una delle tre maggiori televisioni americane, uno di quei colossi ciascuno dei quali raccoglie in pubblicità l’equivalente di tutte le televisioni europee.
Penso alla solita richiesta di intervista (e, dunque, già preparo la scusa per non accettare: nulla è più esasperante che le domande idiote dei giornalisti yankee) ma, in realtà, ciò che mi si vuol proporre è altro.
Mi spiegano che loro, the americans, non sono improvvisatori come noi, the latins, e dunque si preparano in tempo a quello che chiamano the Event. Che è poi null’altro che la morte di Giovanni Paolo Il. Poiché agli americani piacciono le cerimonie, per seguire le onoranze funebri e poi il conclave, infine le liturgie per insediare il nuovo papa, hanno già affittato da tempo, e tengono vuoto, un alloggio con vista su piazza San Pietro. AI momento buono vi piazzeranno le telecamere e la sede del “quartier generale”. Ciò che propongono a me è la firma di un contratto: quando the Event si realizzerà, devo impegnarmi a lasciare ogni altro impegno, raggiungere Roma e mettermi a disposizione della Compagnia televisiva per commenti, dibattiti, rapporti con autorità vaticane e quant’altro.
Naturalmente, è previsto un adeguato compenso.
Ciò che più rattrista non è tanto questa proposta. Mi rattrista soprattutto, a pensarci dopo, che la giornalista americana dall’altra parte del filo cada dalle nuvole sotto i miei improperi, che non sembri proprio capire quando le dico che anche simili cose siano tra quelle che rendono – come dire? – “poco simpatici” gli americani alla maggioranza dei cittadini del mondo. Ma perché?, ripete la donna, perché, visto che Lei sarà ben pagato? Lascio perdere, depongo la cornetta. E non rispondo quando, implacabile, richiama.
IL TIMONE – N. 41 – ANNO VII – Marzo 2005 pag. 64 – 65 – 66