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12.12.2024

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Vivaio
31 Gennaio 2014

Vivaio

 

 


I lettori di questo nostro giornale non sono un gruppo formatosi casualmente: chi si abbona al Timone lo fa perché ha interessi religiosi ma non indifferenziati, bensì precisi. Interessi, cioè, non solo “cristiani” ma direttamente “cattolici”, fedeli alla dottrina della Chiesa. Chi ci segue è perché sa che, su queste pagine, troverà non solo informazione ma (almeno, noi che qui scriviamo ce lo auguriamo) pure formazione. Formazione per capire, innanzitutto, che ragione e religione non sono antagoniste ma complementari, che scienza e fede non sono in contrasto, che su Dio, su Cristo, sulla storia della Chiesa circolano molte, troppe “leggende nere” e che è dunque necessario sapere come sono andate davvero le cose.
Se dico tutto questo – e molto altro si potrebbe aggiungere – è per ricordare che chi frequenta questa “casa” di carta stampata forma una piccola ma reale comunità, fa parte, in qualche modo, di una famiglia dove gli intenti, gli obiettivi, le speranze sono in comune. Proprio per questa solidarietà che ci unisce, mi permetto rispondere non solo in privato ma anche sulle pagine di un “giornale-gruppo” come questo ai non pochi lettori che (bontà loro) mi hanno chiesto informazioni sui miei progetti di lavoro. Spero che questa libertà che mi concedo sia colta nel senso giusto: che non è certo quello del protagonismo, ma quello della confidenza tra amici che sono poi anche fratelli e sorelle nella fede. E che, come me, sono interessati ai temi apologetici che altro non sono (per dirla con Pietro stesso) che il lavoro e la riflessione «per rendere ragione della speranza che è in noi».
Vediamo, dunque: come i lettori sanno, un paio di mesi fa l’editore Mondadori ha pubblicato il mio Bernadette non ci ha ingannati, con sottotitolo Un’indagine storica sulla verità di Lourdes. Dunque, come si annuncia sin dalla copertina, in queste trecento pagine mi sono concentrato su quella piccola, grande creatura sulle cui spalle – debolissime, secondo il mondo, ma solidissime secondo il vangelo – grava il peso inaudito del più celebre e frequentato santuario mariano della cristianità. Ma, come avverto sin dal primo capitolo di questo libro su Bernadette, un secondo volume seguirà il cui titolo sarà (probabilmente) Attorno a quella Grotta: dopo lo strumento umano delle 18 apparizioni, dopo l’unica testimone, la sola che ha visto, sentito, riferito, resta molto da dire per situare Lourdes nella storia e per coglierne sia la veridicità che il mistero. In questo secondo volume – anch’esso, sia chiaro, con il taglio di quella apologetica pacata e rigorosa che ho sempre cercato di praticare – metterò, ovviamente, il risultato di nuove ricerche, ma farò confluire anche non poco di ciò che ho scritto qui, sul Timone, nell’anno del 150° anniversario delle apparizioni. In effetti, redigendo questi “vivai”, mi impegno sempre quanto posso perché abbiano la struttura di capitoli di futuri libri. Per questo lavoro, certe cose prenderò anche, seppure riviste e in parte riscritte, dalle Ipotesi su Maria, il grosso libro che pubblicai nel 2005 presso le edizioni Ares. In effetti, in quel volume alcuni dei 50 capitoli trattano esplicitamente di Lourdes e mi sembra opportuno metterli nel progettato Attorno a quella Grotta. In ogni caso – con il consenso dell’editore, l’amico di sempre Cesare Cavalleri, cui molto deve la cultura cattolica – i capitoli “sottratti” a Ipotesi su Maria saranno sostituiti da altrettanti capitoli, scritti appositamente e di taglio strettamente mariologico. Dunque, per ricapitolare, a beneficio dei lettori affettuosamente curiosi che mi hanno interrogato: c’è, fresco di stampa, il libro su Bernadette appena uscito; ci sarà un nuovo libro – che vorrei uscisse per l’autunno prossimo – su ciò che stava attorno alla veggente nei luoghi e ai tempi delle apparizioni; infine, un’edizione rinnovata delle Ipotesi su Maria, con nuovi capitoli sulla Vergine di tema non lourdiano.
Tutto questo, ovviamente, sotto il segno (che mai dobbiamo dimenticare, quali che siano i nostri progetti) delle parole dell’apostolo Giacomo: «Non sapete cosa sarà domani! Che è mai la vostra vita? Siete come vapore, che appare per un istante e poi scompare». Dunque, «dovreste dire invece: se il Signore vorrà, vivremo e faremo questo o quello». Insomma, l’equivalente biblico del detto popolare, a cui sempre ho cercato di obbedire, anche nei progetti editoriali: «L’uomo propone, ma Dio dispone».

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Dopo queste “note di servizio”, date come in famiglia, torno a frugare tra i miei appunti, dopo due puntate compatte e impegnative: la lettura del prologo di Giovanni proposta dal padre De la Potterie e la riscoperta del cosiddetto “epitaffio di Abercio”. Pesco dunque dalle mie cartelline e trovo tre frammenti, in qualche modo legati tra di loro. Nel primo, infatti, trovo una statistica ricavata da una precisa ricerca di una università messicana. Riguarda l’inesauribile tema dell’Inquisizione: questa (che nel periodo spagnolo fu gestita soprattutto dai politici, come istituzione della Corona prima ancora che della Chiesa) funzionò per 296 anni nel vastissimo Vicereame del Messico, che comprendeva tutta l’America Centrale e buona parte di quella Settentrionale, dove nacquero poi gli Stati Uniti. Stando alla ricerca che dicevo, le vittime di quel tribunale furono, in quasi tre secoli, 41 in tutto. Anche un solo giustiziato sarebbe di troppo? Come più volte abbiamo ricordato, una domanda simile fa sorridere gli storici, quelli veri, quelli che non dimenticano che cesserebbero di essere attendibili se volessero giudicare il passato con le categorie del loro presente. Se l’inquisitore ci sembra oggi un mostro, per i nostri antenati era un benemerito della società, rispettato (e invocato dal popolo) perché vegliava sulla sanità pubblica minacciata, prima ancora che dalla peste del corpo, da quella dell’anima.
Seconda scheda: giunse la Rivoluzione Francese che proclamò di volere uscire dalla barbarie e dall’oscurantismo cristiano, non solo cattolico. In effetti, si sa, ma troppo spesso si tace, che l’inquisizione delle zone passate alla Riforma fu più temibile e sanguinaria di quella romana e anche della spagnola, la più severa. Curioso come sono della storia di quella Torino, cui ho anche dedicato un libro, trovo al proposito un secondo appunto. Appena giunti nella ormai ex capitale dei Savoia, uno dei primi provvedimenti dei francesi che «portavano il mondo nuovo sulle loro baionette» (come diceva il loro capo, il giovane generale Buonaparte) fu di commissionare agli artigiani locali alcune ghigliottine, secondo i disegni, che portavano con sé, di quelle di Parigi. Appena il meccanismo fu pronto, l’esemplare destinato a Torino fu montato davanti alla Cittadella e non rimase inattivo: in effetti, dal 1800 al 1814 tagliò qualcosa come 423 teste, in una città che contava allora poche decine di migliaia di abitanti. Tra quegli sventurati c’erano sì delinquenti comuni ma c’erano, soprattutto, resistenti al nuovo regime, dunque condannati a morte “per delitti di opinione”, per dissensi verso l’ideologia politica del momento, quella che aveva cercato di sostituire il cristianesimo. Prima, era severamente punito chi avesse bestemmiato Cristo, adesso lo era allo stesso modo chi avesse offeso Sua Maestà Napoleone I. Questi, non a caso, incurante delle proteste del Papa, aveva reso obbligatorio per ogni bambino un “Catechismo Imperiale” dove il parvenu còrso era equiparato al profeta d’Israele. Prima, per gli eterodossi, il rogo; adesso la ghigliottina, e in misura ben più abbondante che nei cosiddetti “secoli bui”. Dov’è l’annunciata uscita dalla “tirannide della superstizione clericale”?
Terzo appunto, che traiamo dal Seicento: Baruch Spinoza. Membro di una famiglia ebraica rifugiatasi nei Paesi Bassi dopo l’espulsione in massa dal Portogallo, fu filosofo assai precoce. Tenuto subito d’occhio e sospettato dalla numerosa e potente comunità israelitica olandese, più volte ammonito perché rientrasse nell’ortodossia ebraica, fu espulso con infamia a soli 24 anni. Se gli ebrei ne avessero avuto il potere l’avrebbero giustiziato volentieri e subito, con i supplizi che la Torah e il Talmud prevedono per gli eretici, ma (per fortuna del giovane) tra i diritti che i calvinisti dei Paesi Bassi concedevano agli israeliti non c’era quello di dare la morte. Ma poiché concordavano con gli ebrei sulla necessità di reprimere l’empietà verso Dio, di cui – anche secondo loro – Spinoza si era macchiato, non confermarono la pena capitale ma gli comminarono quella dell’esilio e gli vietarono ogni impiego impegno pubblico. Così, il filosofo dovette lasciare Amsterdam e vivere in oscuri villaggi, pubblicando anonime o con pseudonimi le sue opere e guadagnandosi il poco di cui aveva bisogno molando vetri per occhiali, cannocchiali, microscopi.
Riproduciamo qui il testo della sentenza di scomunica letta il 27 luglio del 1656 dai rabbini Mortera e Aboab davanti alla comunità degli ebrei di Amsterdam. Una citazione un po’ lunga ma che vale la pena di conoscere (anche perché spesso è passata sotto silenzio) e, dopo la quale, faremo qualche commento.
Ecco dunque quanto fu letto pubblicamente nella sinagoga: «I Signori del Consiglio di questa Comunità israelitica annunciano che, essendo da tempo a conoscenza delle malvagie opinioni di Baruch de Espinoza, ricevendo quotidianamente informazioni sempre più gravi riguardo alle abominevoli eresie che egli pratica e insegna e sulle sue azioni mostruose, hanno deciso che il detto Espinoza debba essere scomunicato ed espulso dal popolo di Israele. Con il giudizio degli angeli e la sentenza dei santi, noi lo dichiariamo scomunicato, esecrato, maledetto ed espulso, con l’assenso di tutta la Sacra Comunità». Seguono le conseguenze che ne deriveranno per il giovane cacciato: «Sia maledetto di giorno e maledetto di notte; sia maledetto quando si corica e maledetto quando si alza; maledetto nell’uscire e maledetto nell’entrare. Possa il Signore mai più perdonarlo; possano l’ira e la collera di Jahvé ardere, d’ora innanzi, quest’uomo, far pesare su di lui tutte le maledizioni scritte nel Libro della Legge e cancellare il suo nome dal Cielo. Possa il Signore separarlo, per la sua malvagità, da tutte le tribù di Israele, opprimerlo con tutte le maledizioni scritte nella Torah». Infine, gli avvertimenti agli ebrei fedeli: «Siete tutti ammoniti che d’ora innanzi nessuno deve parlare con lui a voce né comunicare con lui per iscritto; che nessuno deve prestargli servizio, né dormire sotto il suo stesso tetto, nessuno avvicinarsi a lui oltre i quattro cubiti e nessuno leggere alcunché dettato da lui o scritto di suo pugno».
Ciò che più impressiona un cristiano, in questo terribile editto è la definitività, la negazione in eterno di una possibilità di ripensamento, di pentimento da parte di un condannato, per giunta di soli 24 anni. È l’esclusione di ogni chance, per colui che è dichiarato smarrito, di ritrovare la via che lo riporti a quella che per i rabbini è la vera fede. È la ripetizione ossessiva delle maledizioni, è l’esclusione da ogni consorzio sociale. Il tutto da parte di una Comunità che non esita nella certezza di parlare e giudicare a nome di Dio stesso. Chi depreca l’istituzione cristiana (cattolica e protestante, lo ripetiamo) della Inquisizione, dopo avere letto una simile sentenza per opinioni non allineate a quelle giudicate ortodosse, si convince che non sarebbe stata migliore una società dove al potere ci fossero stati i rabbini piuttosto che i sacerdoti o i pastori. A conferma di quanto sopra dicevo: sarebbe pessimo storico colui che giudicasse i comportamenti di tutti, anche degli uomini religiosi, secondo le categorie del nostro e non del loro tempo.

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Cambiamo completamente argomento, visto che così impone l’appunto che mi viene in mano, frugando del mucchietto.
Ecco qua, allora: si sa come istituzioni spesso mosse da spirito irreligioso, malgrado si attribuiscano una improbabile “neutralità” – come l’Unesco, laCroce Rossa Internazionale, il Comitato Olimpico, la stessa Comunità Europea – mirino a sostituire il calendario cristiano, e cattolico in particolare, con uno “laico”. Così, anno dopo anno, per ogni giorno di ogni mese, il ricordo della celebrazione di un santo viene sostituito da una “Giornata Mondiale”, con le attribuzioni più strane, talvolta serie ma spesso grottesche. Senza strepito, sotto la consueta maschera del buonismo politically correct, è qualcosa di simile al calendario repubblicano imposto dalla Rivoluzione Francese. Calendario che, con gli ovvi adattamenti e differenze, fu ripreso dall’Unione Sovietica. Totalitarismi meno radicali, come il fascismo, introdussero qua e là giornate dedicate alle loro ricorrenze e ai loro “martiri”, ma si limitarono a sostituire l’anno. Non più, per l’Italia, il computo degli anni a partire dalla nascita del Cristo, ma da quelli dalla Marcia su Roma.
Tutti quei calendari, comunque, durarono poco e poco coinvolsero la gente. La quale, per venire ai nostri giorni, ignora di solito a quale “Giornata” siano state dedicate le 24 ore che al momento vive. Così, a parte qualcuno direttamente interessato, sfido a trovare chi sappia che, da circa 25 anni, il 20 marzo (chissà con quale criterio vengono stabilite quelle date) è ufficialmente la “Giornata Mondiale senza carne”. In questo modo, dicono i fissati di simili liturgie laiche, «si vuol far riflettere l’opinione pubblica sull’impatto etico, ambientale e di salute umana determinato dal consumo di carne ». Vedo in un comunicato di ambientalisti che, proprio in nome della salute, nomi illustri hanno firmato il solito manifesto, con l’appello a non mangiare carne almeno una volta alla settimana.
Guarda un po’ chi si vede: non vi sembra di ricordare qual era il precetto della Chiesa per il venerdì? È uno dei tanti casi, purtroppo, in cui nel postconcilio si sono aboliti tanti aspetti dell’identità cattolica pensando di essere più “vicini e comprensibili all’uomo contemporaneo”. In realtà, è successo il contrario, visto che sono proprio le cosiddette “avanguardie” dello stile di vita contemporaneo che riscoprono – per via del tutto laica – la sapienza anche umana del cattolicesimo pure nell’almeno settimanale astensione dalle carni. Però, si sta ben attenti a non identificarsi con l’antico – e abolito, da preti in vena iconoclasta – precetto della Chiesa. Così, nel maggio del 2009, la città di Gent (Gand in francese), nelle Fiandre belghe che furono cattolicissime, ha voluto attribuirsi un primato, proclamandosi prima città al mondo a favorire e propagandare l’astensione dei suoi cittadini dalle carni una volta alla settimana. Ma che giorno scegliere? La giunta municipale, democristiani compresi, ha deciso che quell’astensione avverrà il giovedì. Non il venerdì, naturalmente: sarebbe stato “confessionale”, mentre occorre salvaguardare la laicità.

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A proposito di laicità da salvaguardare. In Gran Bretagna esiste un Consiglio ebraico-cristiano che non so bene quali compiti immani debba svolgere visto che (leggo) ha ben tremila membri, divisi in 60 gruppi di lavoro ed è diretto in modo unitario dal primate anglicano e da quello cattolico. Il direttivo supremo di quel pletorico Consiglio è allarmato: è successo, infatti, che qualche ebreo, scoprendo i vangeli magari per la prima volta, si è convertito e ha chiesto il battesimo. La conversione, si sa, è considerata l’azione anti-ecumenica per eccellenza: il dialogo, per i cristiani adulti, deve portare ciascuna delle parti a irrigidirsi sulla sua identità, guai a passare sull’altra sponda, anche se riflessione umana e appello divino vi spingono! Così, le autorità del Consiglio hanno vietato severamente ai cristiani ogni forma di “proselitismo”: quello che una volta si chiamava “apostolato”. Inutili le proteste degli evangelicals, in polemica con le comunità protestanti storiche, che hanno ricordato che «ogni cristiano ha il dovere di evangelizzare il mondo». I vertici hanno ribattuto, seccamente, che «ogni attività evangelizzatrice distrugge al nostro interno la fiducia reciproca tra cristiani ed ebrei, fiducia che è essenziale al lavoro del Comitato».
Niente da obiettare, invece, alla comunità presbiteriana (che in Scozia è chiesa ufficiale) la quale, negli Stati Uniti, ha dovuto esprimersi sul caso di un suo pastore cinquantenne, sposato e con due figli. Questo pastore potrà continuare a guidare la sua comunità, anche se si è fatto evirare per diventare donna, cambiando persino al femminile il nome di battesimo (da Eric a Erin)? Dopo un po’ di discussione, naturalmente è arrivato il consenso: il già pastore resterà parroco come pastora. Altrimenti, sarebbe stata una “insopportabile discriminazione”.   

 

 

 

 

IL TIMONE  N. 118 – ANNO XIV – Dicembre 2012 – pag. 64 – 66

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