Per questo atteggiamento di due papi, l'ostilità verso la Santa Sede fu tale che si decise che essa non avrebbe in alcun modo partecipato ai congressi internazionali a guerra finita. L'Italia massonica si era portata avanti: volle che questa esclusione fosse messa, nero su bianco, già nel 1915, nel trattato segreto di Londra, con il quale la Penisola – con quello che fu giudicato tradimento e che sarà poi ripetuto nel settembre del 1943 – lasciava di nascosto gli alleati Imperi Centrali e passava con francesi, inglesi, russi. Non intratteniamoci sul fatto che proprio grazié alla sua assoluta neutralità (o "totale imparzialità"), come il papa preferiva dire, la Chiesa cattolica poté esplicare una straordinaria attività benefica a favore sia dei militari che dei civili di ogni nazionalità e religione.
Qui, comunque, ci interessa segnalare un sussulto di verità mostrato – in questo centenario della strage non solo inutile ma senza precedenti nella storia – dalla comunità luterana tedesca, per la quale ha parlato a nome di tutti i protestanti Ralf Meister, vescovo di Hannover. Quest'uomo, noto anche per le sue ricerche storiche, è stato intervistato dal giornale ufficioso luterano che ha esordito con una domanda diretta: «Un secolo fa, la Chiesa protestante sosteneva l'entusiasmo generale per la guerra e la incoraggiava anche attivamente. Come andarono davvero le cose?". Questa la risposta del discepolo attuale di Lutero: «Sì, la grande maggioranza dei protestanti – noi luterani in primis, ma non solo – fu favorevole al conflitto e parlava con commozione dell'onore di soffrire per la Patria e, se necessario, di morire per essa.
Cristo stesso, predicavano i pastori, benediva queste battaglie e l'esortazione dei nostri capi religiosi ai giovani arruolati suonava così: "Con Dio alla guerra!"».
Segue, nell'intervista, un'altra domanda: «Come si manifestava questo appoggio senza esitazioni alla passione guerresca del Kaiser, del suo governo, dello Stato Maggiore, del Corpo degli ufficiali?» Risposta del vescovo luterano: «Questo atteggiamento protestante si manifestava nelle prese di posizione della gerarchia delle varie Chiese, nei giornali confessionali ma, prima di tutto, nella predicazione la domenica, durante il culto. I sermoni raggiungevano allora tutti gli strati della popolazione e i pastori credevano loro compito dare ai fedeli le interpretazioni dei fatti secondo il punto di vista del governo e dell'esercito. Anzi, a partire da UM teologia del sacrificio nazionalistico, davano ai soldati morti e anche solo feriti lo statuto dei martiri». Perché successe questo che a noi, oggi, pare incomprensibile se non aberrante? Ralf Meister: «Secondo la tradizione luterana la Chiesa era protetta dai Prìncipi, ai quali si doveva sempre e comunque fedele ubbidienza. Da storico, posso dire che nell'intero Reich nessun gruppo sociale sostenne lo sforzo bellico con più determinazione delle comunità, che erano la grande maggioranza in Germania, che si rifanno a Lutero. E devo aggiungere che la nostra Chiesa ha avuto bisogno di molto tempo per liberarsi dal suo entusiasmo bellicista. Ci sono volute due guerre mondiali. Con la fine della prima, il legame con la dinastia imperiale venne meno perché venne meno la stessa dinastia, sconfitta ed esiliata.
Ma il legame tra Chiesa protestante e Stato, in Germania, fu definitivamente sciolto solo dopo la nostra
seconda catastrofe». Il vescovo, qui, allude al fatto che la stessa passione nazionalista che aveva caratterizzato i luterani risorse con l'ascesa. al potere di Hitler, quando la maggioranza della gerarchia e dei fedeli si riunì nei Deutsche Christen, fiancheggia- • tori e propagandisti del nazionalsocialismo, anche nel suo aspetto antiebraico.
Ma tutto questo, per chi conosce la storia, era il destino inevitabile della rivolta di Lutero che, strappando la Chiesa al Papa, dovette affidarla ai re: cacciando i pastori uniti a Roma dovette affidare ai monarchi locali il gregge dei credenti. Nulla di sorprendente né di nuovo, dunque, nell'autocritica del vescovo di Hannover: non poteva andare diversamente. In modo diverso, semmai, dovrebbero comportarsi certi cattolici che, praticando un ecumenismo facilone, da pacche sulla spalla, ignorano o rimuovono questo "peccato originale" del protestantesimo (le autorità politiche come "protettrici", e alla fine padrone, delle comunità cristiane), "peccato originale" che costituisce un nodo decisivo che va affrontato alla luce non solo della teologia ma anche delle gravi conseguenze storiche.
Ci si lagna, e con buone ragioni, delle condizioni attuali dell'Italia e di alcuni altri Paesi europei. Non sarò certo io a misconoscere i disagi e spesso le sofferenze prodotte soprattutto da una crisi economica che sembra non voler finire. Ma vorrei al contempo esortare chi è più giovane di me a non pensare di essere stato chiamato a vivere nel peggior periodo del suo Paese. Sono abbastanza vecchio per avere vissuto gli anni Settanta, credo davvero i peggiori dell'intero dopoguerra. Vedo che la mia convinzione di testimone diretto è confermata da una impressionante statistica compilata da un collega giornalista, Stenio Solinas. Queste le cifre del settimo decennio italiano del Ventesimo secolo: 7.866 attentati contro caserme, uffici pubblici, commissariati; 4.290 atti di violenza grave durante manifestazioni e cortei; 362 morti e 172 feriti in agguati politici; 11 stragi con bombe per 151 morti e oltre 5.000 feriti; 15 rapimenti politici; 597 sigle (di cui 484 di sinistra) che hanno rivendicato attentati o agguati; 37 terroristi uccisi in conflitti a fuoco con le Forze dell'ordine. Quegli anni, li passai come redattore del quotidiano La Stampa di Torino che, essendo proprietà non della Fiat ma – ancor peggio per i violenti gauchistes – della famiglia Agnelli, era uno dei bersagli più concupiti. Fu assassinato dalle Brigate Rosse anche il nostro vicedirettore, Carlo Casalegno, un amico ancor più che un collega, mentre i due direttori che si succedettero – Alberto Ronchey e Arrigo Levi vivevano blindati, in senso letterale, spostandosi solo su auto corazzate e risiedendo in alloggi dell'azienda, con agenti armati accampati giorno e notte sul ballatoio. La Stampa, allora, aveva sede non lontano dal Po: mi resi conto delle condizioni cui ci eravamo ridotti il giorno che, andando al giornale, scopersi che sul ponte che scavalcava il fiume avevano installato una mitragliatrice presidiata non da poliziotti ma da soldati.
Estremo tentativo di intimorire anche con quella presenza i cortei che periodicamente cercavano di raggiungere l'edificio del "giornale del padrone" per incendiario.
Mi capita di ripensare spesso a quegli anni, perché furono quelli in cui portavo avanti la mia riflessione sulle origini del cristianesimo e mi azzardavo a proporre in un libretto di 300 pagine delle "ipotesi su Gesù". Per queste pagine ho, lo confesso, un legame particolare, e non solo perché furono le prime che scrissi per un libro, dopo essermi limitato per tanti anni a semplici articoli da giornale.
Il legame nasce anche dalla riconoscenza: quella di chi, nel caos spesso sanguinoso in cui viveva, poteva in certe ore e giorni chiudersi in uno studiolo, uscire dal presente e immergersi in ciò che non passa. Proprio in quei tempi, assaporai la verità del bel motto dei Certosini cui mi sono spesso aggrappato per non prendere troppo sul serio il fluire della cronaca: Stat crux dum volvitur orbis, la croce sta salda mentre il mondo gira. Una verità che sperimentai sino in fondo, vivendo più che potevo nell'antico Israele, mentre attorno la mia città e il Paese intero sembravano agonizzare.
Se mi sarà concessa la misericordia di accedere al Paradiso – ovviamente, dopo un'adeguata dogana da pagare per l'incoerenza tra quanto ho creduto e quanto ho vissuto – chiederò al grande Custode, san Pietro, di conoscere e di abbracciare una signora, Marie Beauzac, morta sotto la ghigliottina nella illustre città mariana di Le Puy-en-Velay. Un luogo che mi è caro non solo per la sua singolare bellezza, ma anche perché è strettamente, e misteriosamente, legato al destino di Lourdes che dalla Vergine venerata a Le Puy dipese per secoli. Perché voler rintracciare quella madame Marie ignota agli storici e conosciuta solo da qualche studioso locale? Ecco, dunque, la vicenda. La donna, vedova, aveva un solo figlio, il quale si era fatto prete. Era ancor fresco di ordinazione quando il clero di Francia fu costretto dalla Rivoluzione a giurare – pena la vita – sulla "Costituzione civile" che staccava quel clero da Roma e lo metteva sotto il dominio dello Stato, di cui diventava un obbediente corpo di funzionari. Il Governo stesso provvedeva a stipendiare i sacerdoti, in cambio della predicazione di una morale che tenesse buone le masse e inculcasse loro una obbedienza e un ossequio "religioso" alle gerarchie politiche del momento. Non il Cristo Figlio di Dio ma il filosofo Gesù, predicatore di un'etica fatta su misura per gli adoratori di un innocuo e vago "Es sere Supremo". Il figlio della Beauzac rifiutò, alla pari di molti altri, quel giuramento che gli sembrava blasfemo e, per evitare la ghigliottina come "prete refrattario", si diede alla macchia. Con altri, sopravviveva nei boschi sulle montagne che circondano Le Puy ma ogni tanto, di notte, giungeva furtivo sino a casa per riabbracciare la madre, felice ovviamente di dargli qualcosa di nutriente e di caldo da mangiare. Dei vicini, i soliti ignobili spioni partoriti da ogni regime totalitario, denunciarono il fatto ai giacobini locali. La donna fu subito arrestata e trascinata davanti al sedicente "tribunale del popolo". Va ricordato che, ai tempi del Terrore, non esistevano prigioni, se non quelle dove l'accusato passava le poche ore tra la cattura e il processo. La legge conosceva solo due esiti al cosiddetto "giudizio repubblicano": o la liberazione o la ghigliottina. Quest'ultima era prevista per ciò di cui madame Beauzac era accusata: aiuto, anche se era il figlio, a un prete ribelle alla Repubblica, a un "papista fanatico". Condannata a morte in pochi minuti, senza alcun dibattito (la legge
negava anche un avvocato a chi era imputato di simili "crimini antipatriottici") fu subito condotta al patibolo.
Salita sul palco, si voltò verso la gente che assisteva e disse solo poche, ma terribili, parole che ci sono state conservate da un testimone oculare: «Una cagna può nutrire i suoi piccoli ma una madre non può nutrire suo figlio se non a prezzo della vita». Poi, volgendosi al boia "patriota", un volontario che uccideva con piacere i nemici della rivoluzione e ostentava il berretto frigio: «Voi siete più feroci delle bestie più feroci». Pochi istanti dopo, la sua testa rotolava nel paniere sotto la lama.
Non conosco condanna più definitiva, nella sua essenzialità, di quel delirio ideologico. Ma sì, vorrò proprio abbracciarla, quella mamma intrepida; e voglio dirle che, non potendo far altro, ho almeno riesumato il suo nome, rivelandolo ai soliti venticinque lettori di manzoniana memoria.
A proposito di donne dal destino singolare: ce ne fu una che fu partorita da una monaca di clausura all'interno stesso del monastero, una che per tutta la vita fu vittima di una possessione diabolica che neppure gli esorcismi riuscirono a scacciare, una che subì dentro la Chiesa ogni sorta di umiliazione e di minacce, sospettata anche di essere una strega. E che, alla fine, divenne una beata alla cui tomba correvano i devoti, ottenendo molte grazie. E oggi pure l'afflusso, seppur discreto non è cessato nella chiesa dove giace, San Pietro di Padova.
Anche nella città veneta, come quasi ovunque nella cristianità mediterranea – quella di antica evangelizzazione – alla metà del Quattrocento la vita religiosa era talmente decaduta che non era raro che delle monache, pur ristrette in una clausura evidentemente assai permeabile, si ritrovassero incinte. Nel 1444 capitò pure nel monastero benedettino padovano di San Prosdocimo. Fu singolare, però, il fatto che la bambina, battezzata come Lucrezia, non fu allontanata assieme alla madre ma fu al
levata nella stessa casa consacrata dov'era nata. Quando giunse all'età adeguata, fu aggregata all'educandato gestito dalle monache nell'abbazia stessa: un ambiente moralmente malsano, alla pari del monastero, al punto che quando il vescovo cercò di imporre disciplina, tutte le religiose preferirono andarsene e ritornare nel mondo. Soltanto Lucrezia, allora sedicenne, restò e fu aggregata alle benedettine più degne della loro vocazione che furono inviate per sostituire quelle allontanatesi. La giovane chiese e, con fatica, ottenne di diventare ella stessa monaca assumendo, curiosamente, un
"nome di religione" maschile: Eustochio.
"Con fatica", dicevamo. In effetti, sin da bambina il demonio si era impadronito del suo corpo, escludendone la testa e, dunque, ragione e volontà che restarono quelle di una credente eroica nelle verità della fede. A poco servivano gli esorcismi più volte ripetuti. Nei periodi di crisi, le consorelle dovevano addirittura legarla alle colonne del chiostro. Poiché la badessa si ammalò di uno strano morbo, fu accusata anzi di stregoneria e fu gettata per mesi in prigione, senza luce, a solo pane ed acqua. Lei stessa patì molti mali e mai, sino a poche ore prima della morte, mai il demonio cessò di tormentarla. A chi le consigliava di lasciare la vita religiosa, rispondeva: «Queste tribolazioni sono le benvenute, perché intendo espiare la colpa da cui sono nata proprio qui, dove è stata commessa. Voglio vivere per scelta dove sono nata per disgrazia». Dicono fosse molto bella ma quando morì, a soli 25 anni, le sofferenze sia fisiche che morali l'avevano ridotta a un fantasma. AI suo decesso, per uno di quei fenomeni enigmatici ma consueti nella storia cattolica, si sparse subito la sua fama di santità: l'unica santa, tra l'altro, nata da una monaca infedele al suo voto e divenuta tale dopo essere stata posseduta dal demonio per la vita intera. Morta nel 1469, fu beatificata nel 1760 da Clemente XIII che ben conosceva la sua vicenda, essendo egli pure padovano. Ancora oggi il suo sepolcro è venerato nella città veneta. Che aspettano uno scrittore degno del nome o uno sceneggiatore di talento a trarre un libro o un film da una simile, unica vicenda? •
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