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Vivaio. La grande sorpresa di Giovanni
31 Gennaio 2014

Vivaio. La grande sorpresa di Giovanni



Ditemi voi: come fa a non annoiarsi, magari a infastidirsi uno con la mia età (e che, dunque, ha visto troppe volte il continuo ripetersi delle utopie, delle illusioni, degli errori), uno con alle spalle, per giunta, anni universitari in cui ha cercato di apprendere le leggi della cosiddetta “scienza della politica”? Ma sì, malgrado tutto anche la politica può essere, oltre che un’arte, una “scienza”, nel senso che è retta da alcune leggi costanti che si possono sfidare solo se si è pronti a sopportare i danni.
Una delle chimere ricorrenti è quella del “movimento” – egualitario, democratico, libero, snello, economico – da contrapporre al “partito”: gerarchico, burocratico, dogmatico, costoso. Un mito che ritorna sempre eguale, malgrado ogni esperienza: la quale mostra la verità di una di quelle leggi della politica che dicevo. E che, cioè, un “movimento” si dissolve sempre e presto, esauriti i primi entusiasmi (causati di solito da un fondatore carismatico) e se vuole durare e incidere sulla società si trasforma necessariamente, inevitabilmente, in una istituzione. E in particolare, per quanto riguarda la politica, in un partito con capi, sedi, tessere, disciplina interna e quant’altro. I fervori, gli entusiasmi, le libertà iniziali svaniscono presto e lasciano il posto alla burocrazia partitica, quali che siano le intenzioni di fondatori e militanti.
È una constatazione elementare, per la quale, in verità, non occorre un politologo, bastando una persona di buon senso. Ed ecco invece che, alle ultime elezioni politiche, quasi un quarto degli elettori italiani dà fiducia a un urlatore che definiscono un comico (anche se a dire il vero mi pare abbia fatto ridere sempre poco) e che ripresenta come una realtà salvifica, come una novità dirompente destinata a salvare il Paese, proprio un “movimento” da contrapporre ai malefici “partiti” e a cui dà il nome di un albergo: “Cinque Stelle”. Fin che si trattava di strillare volgarità e insulti a tutti e a tutto nei comizi piazziaioli, sembrava agli sprovveduti che il “movimentismo” alla Grillo potesse funzionare. Ma il demagogo è stato subito punito da un successo elettorale da lui imprevisto e a lui sgradito. In effetti, è agevole (e gratificante, a causa degli applausi), inveire contro le “caste” partitiche, annunciare apocalittici disastri, quando si è piccola minoranza, quando si dice no a tutto e si sta ai margini della politica; quando, non avendo responsabilità di governo, non si deve fare i conti con la realtà. E invece, allo sventurato Grillo proprio questo è capitato: avere una spiacevole, esagerata responsabilità che ha subito mostrato che il “movimento” non funziona, che non può funzionare e che di fronte a esso sta o il rapido squagliarsi di tutto o il trasformarsi nel solito partito. Com’è successo, per fare un solo esempio, al fascismo, nato come movimento ma, una volta raggiunto il potere, fattosi subito partito, per giunta unico e totalitario. Le ispirazioni anarcoidi degli inizi trasformate presto in regime oppressivo e onnipotente. Per stare più vicini nel tempo, anche quello di Berlusconi nacque come “movimento”, rifiutando sin dal nome quello di un partito e assumendo il grido della folla negli stadi: «Forza Italia». Ottenuto il successo, si cominciò con gli eufemismi: «Un partito sarebbe necessario, lo faremo sì ma “leggero”». Ma è anche da simili ipocrisie, dal mancato riconoscimento di una necessità essenziale, che vengono i guai di quella precaria e artificiosa formazione politica.
Comunque, causa di noia e di fastidio è sentire ribadire – nel fervore artificioso dei comizi – la pretesa di essere “movimentisti” e non “partitici” e nel vederla annunciata come una nuova strada, mentre è vecchia, stravecchia e finita sempre come constatiamo anche ora nell’ultimo caso, quello dell’esagitato e barbuto Grillo. Il quale, tra l’altro, annoia in generale per tutto il resto che si capisce del suo “messaggio” (le virgolette sono d’obbligo, per questo insieme di urla e di minacce scomposte). Qui pure, le solite dinamiche che monotonamente si ripetono sin dai tempi remoti: l’apocalittismo, la società che corre verso il baratro, il diavolo (di volta in volta identificato in un gruppo sociale: capitalisti, borghesi, ebrei, nel caso di Grillo i politici, “la casta”), il diavolo dunque che lavora per portare tutti alla perdizione; ma ecco l’apparizione provvidenziale di un profeta che raduna attorno a sé un gruppo di persone intrepide e consapevoli, di paladini della verità e dell’onestà, ecco la creazione di una comunità al di fuori della quale non c’è salvezza, ecco l’anatema per chi lascia l’arca di salvezza, e così via, in una serie di déja vu, di costanti sempre ripetute, sin dai tempi antichi. Dal tempo, diciamo, degli esseni, buon esempio di setta escatologica. Che sbadigli! Ma bisogna rassegnarsi, la noia è lo scotto inevitabile da pagare alla “età matura” (per usare il solito eufemismo che neghi il nome stesso della vecchiaia), l’età, comunque, in cui si constata rassegnati l’eterno ritorno delle stesse illusioni di colui che ci si ostina a chiamare homo sapiens.

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Perché parlare di questo proprio qui, in un giornale di apologetica cattolica? Ma perché la costante che esaminavamo non vale soltanto in politica ma, più in generale, nella società intera, compresa la dimensione religiosa. E compreso, dunque, il cristianesimo, il quale nacque – appunto – come un “movimento” di discepoli ferventi e coraggiosi, pronti a mettere in comune tutti i beni e disposti persino (come avvenne tanto spesso) ad affrontare la morte. Così successe per circa tre secoli, quando i cristiani furono una minoranza, concentrata nelle città, spesso perseguitata e, comunque, senza alcuna responsabilità ufficiale. Durò fino a Costantino e, soprattutto, fino a Teodosio, l’imperatore che vietò il culto degli dèi pagani, permettendo solo quello del Cristo. Si completò allora il passaggio, come sempre inevitabile, da movimento in istituzione: non un partito, qui, ma una Chiesa gerarchica, organizzata, con leggi interne ed esterne, proprietaria di beni. Com’era indispensabile e giusto: soltanto così era possibile affrontare la sfida del tempo e non solo sopravvivere ma influire in modo efficace sulla storia.
Da qui il candore, pur spesso in buona fede, di quei cattolici che vagheggiano un ritorno alla comunità cristiana descritta dagli Atti degli Apostoli, quella che appare anche nelle lettere di Paolo. Candore, dico, perché non ci si rende conto che, se non si fosse trasformato in una solida istituzione – con un Capo supremo, con lo Stato Maggiore dei vescovi, con abbazie e parrocchie a presidiare il territorio – del “movimento cristiano” delle origini sarebbe rimasto solo un cenno nei libri di storia o, al massimo, un gruppo border line, una setta marginale, priva di serio influsso. La logica dell’Incarnazione va rispettata sino in fondo: volendo la sua Chiesa nel mondo, in attesa del ritorno, il Cristo non l’ha esentata dalle leggi che reggono le istituzioni umane. Anche se, a differenza di queste, l’istituzione cattolica non è che lo strumento, il “contenitore” per un Mistero che travalica la storia e sfocia nell’Eterno. La Chiesa è una realtà “ambigua” (nel senso etimologico): la conchiglia che tutti vedono e la Perla al suo interno che solo la fede scorge. Ma per conservare e annunciare quel tesoro, il contenitore esterno – umano e, dunque, spesso sgraziato – è necessario.

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Già che ci siamo, varrà forse la pena di accennare ad altre “costanti”, se non leggi, della storia. Forse aiuteremo un poco tanti credenti – troppo spesso, oggi, tentati di utopia da pericolose “anime belle” – a recuperare una delle grandi virtù cristiane: il realismo, il misurarsi con il mondo così com’è e non come lo vorremmo.
Per dirne una: va rovesciato un detto sin troppo famoso, constatando che in politica (e, spesso, non solo qui) “l’unione” non “fa la forza” ma, al contrario, “fa la debolezza”. Ciò vale nella lotta parlamentare: l’esperienza ha mostrato, e mostra, che le unioni di partiti raccolgono sempre un numero di voti inferiore a quello di quando erano divisi. Si veda, per fare un esempio italiano, i molti tentativi di unione dei vari “socialismi”, finiti inevitabilmente in una nuova separazione, visti i deludenti risultati elettorali. Si veda, per stare all’attualità recente, l’unione di Forza Italia di Berlusconi e di An di Fini: qui pure, il risultato è stato maggior debolezza e non maggior forza. Tra i motivi della disfatta dell’impresario milanese improvvisatosi statista ci fu proprio la secessione di militanti che non sopportavano più quella unione.
Ma l’handicap delle alleanze vale anche nella politica aggressiva, quella che porta alle guerre. Un esempio tra i tanti: come riconobbe lo stesso Hitler nel “testamento” scritto poche ore prima di suicidarsi, il conflitto mondiale fu perso dalla Germania a causa dell’unione con l’Italia che, nella vergognosa campagna di Grecia, sull’orlo di essere ricacciata in mare da quello che era considerato il più scalcinato esercito d’Europa, fu salvata dal blitz tedesco. Causando però un ritardo di due mesi nell’attacco alla Russia, ritardo che fu fatale. L’alleanza con l’imbelle Italia costò cara anche a Francia e Inghilterra nella Grande Guerra, e non solo perché si dovettero inviare a nostro soccorso molte forze dopo la disfatta di Caporetto. Ma anche perché le pretese italiane nei confronti dell’Austria impedirono a Parigi e a Londra di concludere una pace separata con Vienna, come era proposto da Carlo, l’imperatore succeduto nel 1917 a Francesco Giuseppe. Ma sì, bisogna starci attenti con la retorica: unioni e alleanze fanno troppo spesso la debolezza e non la forza. E ciò vale, forse, anche per il movimento ecumenico inter- cristiano: un ritorno all’unità, se affrettato e facilone (con il solito slogan ingannevole del “guardare a ciò che unisce e non a ciò che divide”) sarebbe davvero giovevole alla causa della fede nel mondo? C’è da chiederselo seriamente.

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Un detto che invece è confermato dall’esperienza e dalla “scienza della politica” è quello antico di Roma: «Si vis pacem, para bellum», se vuoi la pace, prepara la guerra. Un programma che suscita lo sdegno virtuoso degli adepti – molti dei quali, va pur detto, cattolici – di quella ideologia che è il pacifismo che ha ben poco a che fare con la pace che il Cristo ha apportato. Per stare anche qui a un esempio recente, e forse il più clamoroso: l’incruenta e definitiva vittoria americana nella Terza Guerra Mondiale, quella detta “fredda”, non fu certo dovuta a una serie di presidenti pacifisti, ma all’aggressivo Ronald Reagan. Il quale “preparò la guerra” contro l’Urss, progettando quella che fu detta “stellare”: un sofisticato, complesso sistema spaziale che, grazie all’elettronica, avrebbe reso l’America invulnerabile dai missili sovietici e avrebbe invece permesso di devastare interamente il territorio russo in caso di aggressione. Fu allora che a Mosca ci si rese conto dell’impossibilità – sia scientifica che economica – di mantenere la parità militare con gli Stati Uniti e i successori di Breznev, sino al fatale Gorbaciov, ne tennero talmente conto che si decisero ad alzare le mani e ad arrendersi. La sola “preparazione” alla guerra bastò per vincerla.
Ma, in questo campo, la Svizzera è, da quasi due secoli, l’esempio più chiaro, con la sua scelta di neutralità rigorosa, ma al contempo accuratamente armata. Senza la continua, secolare preparazione alla guerra la Confederazione non avrebbe avuto la pace che, sola, riuscì a salvare per sé nelle due guerre mondiali del secolo scorso. Nella prima, Austria e Germania furono tentate di passare attraverso la Svizzera, sbucando attraverso il Gottardo nella pianura padana e, così, prendere alle spalle l’intero esercito italiano, schierato a Est, sull’Isonzo. Gli Stati Maggiori dei due Imperi, incaricati di preparare l’offensiva attraverso i Cantoni, studiarono a fondo la situazione e alla fine imposero ai politici di rinunziarvi: in effetti, gli elvetici avevano tanto curato la difesa, trincerandosi tra le loro montagne, che persino le armate di Berlino e di Vienna rischiavano lo scacco. Lo stesso avvenne nella seconda guerra: stavolta non era questione di aggredire l’Italia, aprendosi una via attraverso la Svizzera, ma di impadronirsi dei favolosi depositi di oro, di diamanti, di valuta pregiata, di opere d’arte preziose rinchiusi nei caveuax di Berna, di Zurigo, di Ginevra, di Lugano. Hitler pensava non a una occupazione, ma a una vera e propria rapina a mano armata: un’incursione per fare un bottino che avrebbe permesso di finanziare lo sforzo bellico tedesco. Anche quella volta, i vertici militari dissero di no: la resistenza elvetica sarebbe stata troppo forte e avrebbe distratto troppe forze dagli altri fronti. Insomma, davvero, il caso svizzero è una conferma chiara del si vis pacem para bellum, checché ne dicano gli ideologi pacifisti che, come avviene sempre con gli ideali irrealistici, provocano effetti contrari alle buone intenzioni.

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A proposito di nobili programmi che, calati nella pratica, si rovesciano in risultati spesso disastrosi. Adesso vediamo gli effetti del cosiddetto “Stato sociale”, cioè l’affidare alla mano pubblica ogni bisogno individuale, nella ricerca del cosiddetto welfare, il benessere di tutti in tutto. L’unione di un cattolicesimo buonista e idealista con le ideologie di derivazione socialista e comunista è la maggior responsabile dello spaventoso debito pubblico che, in Europa, raggiunge il vertice in Italia (dove, non a caso, democristiani e socialcomunisti governarono per decenni) ma che affligge l’intera Europa. E non solo quella della fascia meridionale. A tutto dovevano provvedere lo Stato, la Regione, la Provincia, il Comune. Si è messo in piedi, cioè, un “ircocervo”, per dirla con Benedetto Croce, una sorta di animale mostruoso: un sistema economico liberale (almeno a parole) e un sistema sociale da regime comunista. Non poteva durare a lungo. E, in effetti, non è durato e si è giunti, non solo da noi, a mettere in piedi precari governi che si assumano la responsabilità di fare ciò che i partiti non osano fare: e, cioè, innanzitutto tagliare le spese, smantellare il mitico welfare. Per la sanità, per fare solo l’esempio più costoso (accanto a quello delle pensioni, elargite generosamente anche a quarantenni), si è cominciato a introdurre i cosiddetti ticket, cioè il pagamento di una quota per le prestazioni mediche. Molti non si rendono conto della beffa: il cittadino, cioè, paga più volte. Con quel ticket aggiunge un sostanzioso contributo a ciò che già abbondantemente versa: è anche, se non soprattutto, per le spese sanitarie che paga tasse esose, buona parte delle quali servono a pagare gli interessi spaventosi per il debito pubblico. Ma questo debito è andato crescendo proprio per assicurare cure gratuite che avrebbero dovuto essere pagate dalle imposte. E invece, ecco che, al momento del bisogno, ci chiedono di pagare ancora. Il sistema dei ticket non è bastato e, ovviamente, non basterà; e allora si è cominciato con le disposizioni perché vengano tagliate buona parte delle analisi e degli esami sanitari, perché si limiti al massimo la prescrizione di farmaci. La “salute per tutti” sta avviandosi alla “salute per nessuno”: tranne per chi, ovviamente, avrà mezzi per affidarsi al sistema privato dove ciò che è necessario viene fatto, in cambio di addebito congruo sulla carta di credito del paziente. In alcuni ospedali si raccomanda a chi viene ricoverato di portarsi da casa gli asciugamani e, in alcuni casi, anche la carta igienica. L’ideologia, dall’apparenza così generosa, di una buona vita per tutti, a carico della comunità, sta portando anche a una deriva omicida: nella solita Olanda, nei soliti Paesi scandinavi – cioè laddove uno Stato sociale quasi interamente realizzato provocava l’ammirazione di tanti – si comincia a discutere dell’opportunità di limitare al massimo, se non sopprimere le costose cure agli ultrasettantenni. Pesi morti, è il caso di dirlo, eliminati i quali i bilanci migliorerebbero. Negli stessi Paesi si pratica già l’eutanasia di massa, anche se non dichiarata: non c’è bisogno di apposite leggi (che, per altro, arriveranno presto), basta semplicemente che negli ospedali si provveda, discretamente, a far sì che i vecchi malati – e ogni anziano lo è – tolgano il disturbo e la smettano di pesare sui bilanci.

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È l’anno prossimo, mi pare, che la Scozia andrà al voto per decidere se staccarsi dal Regno Unito e in particolare dall’Inghilterra, con la quale ha convissuto dal 1707, sempre mordendo il freno. È curioso: un rifiuto proprio di quell’Inghilterra che è stata, nel mondo moderno, la maggiore assimilatrice e dispensatrice non solo della sua cultura ma anche del suo modo di vivere, del suo pensiero, delle sue istituzioni. Una parte notevole del mondo ha l’inglese come lingua madre e tutti, ovunque, sono ormai costretti a impararlo, come nuova koiné universale. Ebbene: questa forza inglese di assimilazione ha fallito proprio nella sua isola. Oltre tre secoli di vita e di istituzioni comuni non sono riuscite a creare una concordia, una vera unione politica, culturale, spirituale. E mentre in ogni Continente si guarda a Londra con ammirazione, anche da Edimburgo vi si guarda, ma come a un’avversaria dalla quale la maggioranza degli Scozzesi vorrebbe staccarsi. Il fallimento del tentativo unitario inglese è ancor più vistoso se si considera l’Irlanda, tanto inassimilabile che, dopo secoli di rivolte, il Paese è riuscito a diventare una repubblica del tutto indipendente, almeno per tre quarti dell’isola.
L’avversione fu tale (ed è: l’IRA non è ancora sciolta) che, nelle due ultime guerre mondiali, l’Eire ha proclamato una stretta neutralità, anzi sottobanco ha collaborato con i tedeschi prima del Kaiser e poi del Führer. Ogni volta che qualcuno ha progettato uno sbarco in Inghilterra ha messo in conto la collaborazione sicura degli irlandesi. E mentre in Asia e Africa, decine di Paesi esotici sono fieri di far parte del Commonwealth, gli irlandesi non vogliono neanche sentirne parlare. Non so, forse non c’entra, ma viene in mente l’espressione di Gesù: inimici hominis domestici eius, i tuoi nemici sono quelli che ti sono più vicini.

IL TIMONE N. 126 – ANNO XV – Settembre/Ottobre 2013 – pag. 64 – 66

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