Il novembre, mese dei morti, è passato da tempo: ma ogni momento è buono per riflettere su quelle “cose ultime” che, in realtà, dovrebbero essere al centro della nostra meditazione, giorno dopo giorno, e non soltanto in certe date.
Troppo spesso non è così, oggi, anche tra i credenti. Dunque, parliamone qui, almeno un poco.
Ovviamente, nessun luogo è propizio come un ospedale per queste salutari riflessioni sulla vita e, soprattutto, sulla morte. Devo dire che, quanto a questo, non ho mancato di portarmi avanti, visto che, come secondo libro, sentii il bisogno di confrontarmi, e non fu facile, con quell’usanza di andarsene alla quale tutti, prima o poi, dobbiamo adeguarci. Come ha detto qualcuno, è disperante che quando sembra arrivato il tempo di vivere davvero – raggiunta una certa età, una posizione sociale, messo da parte un po’ di denaro, un po’ di saggezza nata dall’esperienza –, quando si è pronti a vivere, dunque, ecco che è il momento di morire. Per questo sorpresi e magari delusi tanti lettori che, dopo il mio primo saggetto, si aspettavano qualcosa, come dire? di più gradevole. Anche l’editore sperava di meglio, rispetto al brutale titolo che gli proponevo: Scommessa sulla morte. Ma tant’è: leggere o pubblicare un libro non è, grazie a Dio, un obbligo per alcuno: dunque, prendere o lasciare. Per chi vuole, ci sono infinite altre possibilità. Quelle che Pascal chiamava, con triste ironia, divertissements: che non sono i nostri “divertimenti”, bensì le deviazioni, i sotterfugi per rimuovere il pensiero del destino che attende implacabile tutti noi che, non a caso, siamo detti “mortali”.
Venendo ai fatti miei: per certi problemi ortopedici e reumatici mi è stato prescritto di recente, tra le altre terapie, un ciclo di farmaci somministrati per fleboclisi. Dunque, al mattino presto, ecco l’assegnazione di un posto in una stanza con quattro letti, ecco il rito del pigiama e delle pantofole, l’infilarsi sotto il lenzuolo, il tendere un braccio all’infermiere che ti infila un ago nella vena. Ago che un tubicino collega a un flacone posto in alto, sull’apposito trabiccolo accanto al letto. Una pratica, tutti lo sanno, di assoluta routine in ogni ospedale. Ma il paziente (nome significativo), il paziente – io, in quel caso – ignora che il contenuto di quel flacone gli sarà somministrato non solo goccia a goccia ma con estrema lentezza.
Soltanto dopo l’introduzione dell’ago, infatti, mi si comunica che dovrò stare lì, supino, con il braccio teso, per un minimo di sette ore. Magari, ancor meglio, pure otto: il farmaco che mi si inietta, mi dicono, è assai “tosto”, con possibili effetti collaterali anche gravi, dunque va assunto con prudenza, piano piano. Leggere giornali e libri, nel frattempo? Meglio di no, ti viene detto con aria severa, bisogna stare ben fermi per evitare che l’ago fuoriesca e per non intralciare la discesa dell’enigmatico cocktail chimico che riempie il flacone. Meglio anche non mangiare le cose del vassoio ospedaliero che sarà portato a mezzogiorno: un po’ di digiuno evita i movimenti pericolosi e in ogni caso fa sempre bene.
Così, per tutte quelle ore eccomi (per quella prima volta e per altre che sono seguite) eccomi dunque ad avere come sola occupazione l’attendere – con lentezza esasperante, soprattutto per il mio temperamento impaziente, com’è d’obbligo per i nati sotto il segno dell’ariete – l’attendere, dunque, che una goccia si stacchi dal contenitore e scenda piano piano per il tubicino trasparente per finire il viaggio nella vena. Come colonna sonora, il lamento continuo nel letto accanto di un anziano terribilmente sofferente per una brutta caduta. Lamento che, ad ogni minimo movimento del poveruomo, si trasforma in un urlo straziante che ti risveglia di botto se per caso ti appisoli un momento.
Fissando il flacone mi è riemersa dalla memoria una lettura remota, fatta nei primissimi tempi della mia scoperta di un vangelo che rifiutavo senza conoscerlo, come oggi avviene a tanti, forse alla maggioranza. La lettura, cioè, di quello che fu per almeno due secoli uno straordinario best e long seller religioso, tradotto in tutte le lingue: l’Apparecchio alla morte di Sant’Alfonso Maria de’ Liguori. Colui, cioè, che ci ha liberati dai rigori del giansenismo, tenendo al contempo a bada i cedimenti del lassismo: un grande maestro della via mediana, un santo a me particolarmente caro in quanto conferma autorevole del doveroso et-et cattolico.
Di quel libro insieme terribile e consolante ricordavo soprattutto due cose. La prima, l’ammonimento a non accumulare tesori di cui nulla potremo portare con noi e che dovremo
lasciare a parenti spesso avidi e litigiosi. Di recente, papa Francesco ha ricordato un detto che sentiva nella sua famiglia piemontese e che non sarebbe dispiaciuto al santo napoletano: «Il sudario dei morti non ha le tasche». L’ammonimento di Alfonso ai benestanti era anche perché, tra tanti poveri che morivano di fame, non si cibassero di cose in gran quantità e di ricercata qualità. Il cadavere di chi è grasso – e, per un uomo del Settecento, solo i danarosi lo erano – sarà ancora più ripugnante.
Perché, dice senza eufemismi né complimenti il nostro Napoletano, a causa di tutta quella carne accumulata nei banchetti e nei mille cedimenti alla gola, gravius foetent divitum corpora, i corpi dei ricchi puzzano di più. Un’espressione, come si vede, brutale, in ogni caso politicamente scorrettissima, in quanto rifiuta ogni eufemismo e dice (cosa che troppo spesso neanche i cattolici sanno più fare) le cose come stanno davvero. E senza seguire le ipocrisie della nostra cultura che ha colpito di interdetto – si vedano i necrologi sui giornali – il semplice «è morto», e si nasconde dietro gli «non è più tra noi», «è mancato», «è scomparso»,
«ci ha lasciati», «vive ancora» e così via coi patetici esorcismi che portano persino i medici a censurarsi.
Nel loro linguaggio, infatti, la morte non ha il suo nome da tutti e subito compreso, e a tutti sgradito, ma quello da specialisti che capiscono il latino: exitus. Comunque, anche per la sua crudezza, quella di sant’Alfonso è un’espressione estremamente efficace: non a caso, dopo averla letta una prima volta sono passati i decenni ma non l’ho più dimenticata.
Se ne prendessero esempio tante omelie soporifere, piene di impotenti buonismi e di innocui appelli a dialoghi e accoglienze o anche – per i preti, ultimi orfani degli anni Settanta, col loro marxismo ridotto ad archeologia industriale – o anche di esortazioni all’impegno sociale e alle “lotte”, naturalmente sempre e solo “per gli ultimi”! E qui, un inciso mi viene spontaneo, non posso non ricordare il cardinal Giacomo Biffi, allora arcivescovo di Bologna, che sentii sbuffare, con la consueta ironia, in un incontro che avemmo: «Ma non c’è più nessuno, nella Chiesa, che, senza essere emarginato, possa preoccuparsi anche dei penultimi? Peggio ancora: per i terzultimi – pare che essi pure abbiamo un’anima – chi avrà mai il coraggio di darsi da fare?».
Quando capiranno, tanti nostri pastori, come capirono i loro confratelli per secoli e secoli, che la vera provocazione, il vero scandalo, in senso evangelico, non è l’indugiare in analisi moralistiche di fatti di cronaca, magari politica, ma ricordare innanzitutto una realtà terribile o meravigliosa, a seconda della coscienza di chi ascolta? Questo tempo breve che ci è dato, cioè, questi anni che fuggono sempre più velocemente man mano che l’età avanza, ci sono stati
dati solo in preparazione all’eternità. Il Codice di diritto canonico ricorda, al termine delle sue articolate e complesse norme per regolare la Chiesa come istituzione, che la struttura è sì necessaria, per logica stessa dell’Incarnazione, ma non è che un mezzo per raggiungere lo scopo supremo.
Salus animarum suprema lex Ecclesiae esto, ammoniscono i giuristi di quel Codex alla fine del loro lavoro. Tutto l’apparato mondano, tutta la struttura ecclesiale con il papato, le diocesi, le parrocchie e i rispettivi apparati non ha che un fine ultramondano: adoperarsi per la salvezza
del maggior numero possibile di uomini e di donne nell’Aldilà.
Ma, tornando al mio ospedale: nelle ore che scorrevano lente in quel letto, non era per le parole “scorrette” – secondo l’ipocrisia del mondo – sui ricchi e la loro fine che mi veniva in mente il celeberrimo, un tempo, Apparecchio alla morte. Guardando il flacone di farmaco che sembrava non svuotarsi mai, pensavo ad un’altra esortazione, quella centrale del libro di sant’Alfonso: la necessità, per tutti, di meditare sull’eternità che sta nel futuro comune. Eternità di vita felice, ma anche di possibile vita infelice, per usare un timido eufemismo. Diceva il libro, lo ricordo bene (qui cito ad sensum, non riuscendo a ritrovare il testo nell’eccesso di volumi della mia biblioteca), diceva, dunque, per cercare di far capire la posta in gioco: «Immagina, lettore, di star fermo, in piedi, davanti a un blocco di durissimo granito alto più di cento piedi. E pensa a un goccia, una soltanto, che vi cade sopra ogni cent’anni. Ebbene, quando le gocce, millennio dopo millennio, avranno perforato tutta quell’alta roccia, sappi che l’eternità non sarà neppure cominciata». Immagine, anche questa, tanto cruda quanto efficace. Il gocciolio che mi sovrastava, in quell’ospedale bresciano, sarebbe durato alcune ore ma sapevo che, comunque, avrebbe avuto un termine a breve, ogni stilla che cadeva mi avvicinava all’infermiere che mi avrebbe tolto il pungiglione dell’ago e tolto al contempo dall’immobilità: avevo, da uomo libero, fatto colazione al mattino, avrei fatto cena, nuovamente libero, alla sera. Ma se non fosse finito mai, proprio mai? Se non ci fosse più stata la speranza di un termine? Se davanti a me si ergesse la roccia alta cento piedi, alla quale ne sarebbero seguite altre, all’infinito?
Come càpita, credo, a chiunque, non riesco a meditare sul concetto di “eternità” senza essere colto da una sorta di vertigine. Sant’Alfonso ci esorta a farlo per sgomentarci, per metterci in guardia dall’inferno eterno che minaccia i peccatori che si ostinano sino alla fine nei loro errori e che non confidano nell’aiuto di Dio, sempre possibile purché lo si chieda. Ma la stessa eternità la ritroveremo, ci assicura la fede, in paradiso.
Dolore senza fine da una parte, gioia senza fine dall’altra. Qui pure vengono, a pensarci, dei brividi: ma di quelli da augurare a noi e agli altri. Mi viene in mente il frammento di un altro autore cristiano, morto pochi decenni dopo del santo napoletano, mi viene in mente, cioè, l’annotazione esultante del solito Pascal: «Eternamente felici in Cielo per un poco di esercizio in Terra!». Eh, sì, vale davvero la pena – per trovare sia salutare spavento che confortante attesa – di riflettere almeno un poco su infinito ed eternità.
In ospedale càpita, ovviamente, di intravedere morti. Dico intravedere perché, appena spirati, un infermiere li copre subito con un lenzuolo, in attesa che intervengano quelle che, con un termine barocco giunto sino a noi, chiamano “pompe funebri”.
Non si capisce se quella frettolosa copertura del cadavere sia una reazione di rispetto o di timore: la fretta affannosa di nascondere la morte, quel rimuoverla come se non esistesse che contrassegna la nostra cultura.
Ecco, mi viene da pensare davanti a ogni cadavere, ecco: ora costui “sa”. I morti, ed essi solo, sono i veri sapienti. Varcata la soglia dell’Aldilà, l’ignorante, l’analfabeta, l’anonimo ne sa all’istante infinite volte di più del grande, famoso filosofo o, in generale, pensoso ed ascoltato intellettuale. Costoro, su ciò che conta, sul mistero del vivere e del morire, possono solo avanzare ipotesi, tanto più illusorie quanto più sofisticate.
Il morto, invece, ogni morto, non ipotizza ma vede, constata. Appunto, “sa”. Comprende di colpo come stiano davvero le cose, in Terra come in Cielo. Dunque, quel vecchietto che ieri ho visto agonizzare, quell’omino che a medici e infermieri sapeva parlare solo in dialetto e probabilmente non sapeva che significasse pensare se non per affrontare i semplici eventi della sua anonima vita quotidiana, ora lo intravedo morto e la fede mi assicura che adesso ne sa mille volte di più non solo di me ma anche di un grande maestro di filosofia, di un premio Nobel, dell’autore di molti saggi riveriti, dall’aspetto profondo e in realtà ingannevoli.
Credo che anche ai sapienti secondo il mondo la misericordia del Cristo aprirà le porte del paradiso, ma solo dopo aver constatato e dunque riconosciuto, con umiltà, che quella loro sapienza era troppo spesso quella di ciechi alla guida di altri ciechi.
Restando in tema, mi va ora di parlare un poco di sant’Andrea Avellino.
Chi era costui? Sospetto che anche molti cattolici, pur praticanti, ne conoscano soltanto il nome: e magari neanche quello. Dunque, occorre un piccolo promemoria. Vissuto nel Cinquecento, lucano di Potenza, avvocato in giovinezza, si fece Teatino, sacerdote cioè della famiglia religiosa appena fondata che ebbe un grande ruolo nella lotta contro l’eresia protestante e nella successiva riforma cattolica. Una curiosità: l’ardita, grande cupola (ora in restauro dopo l’incendio) della cappella che, a Torino, custodisce la Sindone e sovrasta la cattedrale della città fu costruita da padre Guarino Guarini, uno dei maestri del barocco, nonché frate teatino. Nella giovane Congregazione, il già avvocato Avellino lavorò senza badare a fatiche e a rischi.
Addirittura fu vittima di due aggressioni che, nelle intenzioni, dovevano essere mortali: lo si voleva uccidere per vendicarsi delle severe riforme che aveva imposto a monasteri, sia maschili che femminili, dove le regole erano assai rilassate. A tal punto era degradata la vita religiosa: si poteva giungere all’omicidio pur di non rinunciare agli agi e ai vizi dei conventi. Malgrado l’impegno febbrile, arrivò ad età avanzata. Aveva già superato gli ottanta quando, celebrando all’alba la messa, ancora in forze e apparentemente in buona salute, fu fulminato da un infarto e si accasciò sull’altare con nelle mani l’ostia appena consacrata.
Da questa morte (la più bella, in fondo, per un sacerdote come lui, innamorato della divina liturgia) nacque il culto: fu invocato come difensore dalle morti improvvise, fu pregato come intercessore perché la morte non ci colga impreparati, perché si abbiano il tempo e le forze per ricevere i tre sacramenti pegni di salvezza. La confessione, l’eucaristia, l’unzione degli infermi.
La mia famiglia non era religiosa, ma tra le poche tracce di devozione – o presunta tale – mi colpiva l’invocazione o, meglio, l’interiezione di alcune mie parenti alla notizia di qualche morte improvvisa. Sant’Andrea Avelein!, esclamavano storpiandone il nome, mentre io mi chiedevo chi fosse quel tale. Ebbi poi, ovviamente, l’occasione di conoscerlo e, così, ormai da molto tempo, è tra i santi di cui ogni sera chiedo l’intercessione.
Ne faccio con reverenza il nome ovviamente dopo quello, illustre tra tutti, di san Giuseppe “patrono della buona morte”: e non a caso, essendo spirato, secondo la Tradizione, nella sua casa di Nazaret, avendo al capezzale la moglie Maria e il figlio Gesù. Quale assistenza più eccelsa? Sant’Andrea è colui che intercede per la grazia che la maggioranza dei nostri contemporanei non solo non desidera ma rifiuta spaventata.
Interrogando la gente, se si ha il coraggio (ne occorre, visto il divieto sociale anche solo di accennare a questo) il coraggio, dunque, di chiedere come vorrebbero morire, la risposta della maggioranza è: nel sonno, di colpo, senza accorgermene.
È proprio ciò che il cristiano dovrebbe chiedere al santo lucano di evitarci: gli si domanda di intercedere per permetterci di “vivere la morte”, preparandoci in modo adeguato, accompagnati dalla preghiera di chi ci vuol bene e dai sacramenti della Chiesa. L’ossessione attuale del viaggio turistico porta tanti a perdere tempo e fatiche per la richiesta di passaporti, di visti, di vaccinazioni, di informazioni, di prenotazioni, magari di abiti adeguati al clima dell’esotico luogo dove si desideraandare. E proprio per il viaggio definitivo, quello senza ritorno, quello che ci condurrà nella dimensione eterna, proprio per quello non solo non cerchiamo ma rifiutiamo la preparazione adeguata? â–
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