Anche stavolta, sfoglio tra gli appunti e ne estraggo qualcuno qua e là. Per esempio, questo, sul quale ho scarabocchiato il ben noto detto latino, come promemoria in quest’epoca di giustizieri, di frustrati che invocano «tolleranze zero»: Summum jus, summa iniuria. Nel detto italiano: «Perfetta giustizia, perfetta ingiustizia». Il pretendere di applicare sempre e comunque la legge nella sua interpretazione più rigida, disattenta alle attenuanti e alle circostanze, invece che il massimo di giustizia produce il massimo di ingiustizia. Lo conferma anche la Scrittura, che nel libro del Qoelet raccomanda: «Non essere giusto oltre misura». Il giudice implacabile, il giustiziere, crea danni non solo all’imputato ma alla società intera più di quello serio ma al contempo elastico, tollerante. La clementia è una virtù cristiana. È un modo per vivere la dinamica cattolica dell’et-et: rispettosi delle norme e al contempo comprensivi, attenti e insieme tolleranti. Non dice forse la Tradizione che il Cristo ci giudicherà secondo giustizia e secondo misericordia?
Questo non avviene per le ideologie moderne che, nella loro fisiologica rigidità, provocano il contrario di quanto promettevano. Prendiamo l’ideologia dell’egualitarismo (non estraneo nemmeno a molto clero, che lo scambia per un valore evangelico), per la quale non solo tutti siamo eguali davanti al Creatore, com’è vero, ma dobbiamo essere tutti eguali nei rapporti umani. Nasce da qui l’imperativo che, nato dalla solita rivoluzione francese, sta scritto obbligatoriamente nelle aule dei tribunali – anche italiani – come solenne memento: «La legge è uguale per tutti». Leggendolo, che nessuno si commuova, pensando alla nobile equità di giacobina memoria. È solo un frutto dell’astratto utopismo dell’Illuminismo settecentesco, rifiutato giustamente dagli anglosassoni, che restano fedeli alla loro common law, per la quale non c’è un reato eguale all’altro, ci sono uomini concreti sulla cui sorte decide un giudice non prigioniero di una norma scritta e immutabile.
Vediamo che succede, in pratica, applicando come da noi questo principio rivoluzionario: una volta decisa la prigione per l’imputato, c’è forse eguaglianza tra (mettiamo) il nomade giovane ma già abituato alla detenzione per furti, truffe, spaccio di narcotici e (mettiamo, ancora) il professionista, il manager sessantenne detenuto, ovviamente per la prima volta, per qualche pasticcio amministrativo, per qualche manovra bancaria, per qualche “distrazione” fiscale? Il peso della galera – e della sofferenza che porta con sé – è forse eguale per chi è giovane, sano, aduso ai disagi e chi è invece attempato, magari con acciacchi, abituato a una vita confortevole? Eguale la punizione per chi non solo ha praticato ma ama la promiscuità con i suoi pari (per molti il timore peggiore è la misura dell’isolamento, lo stare senza altri in una cella) e chi, invece, è del tutto estraneo a questo mondo e vorrebbe almeno star solo, a leggere e riflettere? Da cronista, nei primi anni della professione, mi è capitato di incontrare persone non solo di buon reddito ma anche di buona cultura, reduci dal “buco nero” del carcere, dove erano finiti per i più vari casi della vita. Casi, intendo, non di sangue o, comunque, di violenza. Molti di loro riconoscevano, lealmente, la necessità della punizione ma questa, osservavano, era stata per loro ben più severa che per i compagni galeotti. A cominciare, dicevano, dal frastuono di televisioni e radio portati in ogni cella al più alto volume da gente che, in maggioranza, non avrebbe sopportato il silenzio. Impensabile, per loro, una vita senza colonna sonora al massimo dei decibel. Proprio ciò che provocava una sofferenza viva in altri, con ben altre abitudini.
Come al solito, insomma: l’utopia ideologica che è parsa, e pare tuttora, edificante, addirittura evangelica («Tutti eguali a tutti gli altri») produce, se si cerca di metterla in realtà, effetti di crudele disuguaglianza. Per giunta, chi osi nutrire sospetti come quelli che ho espresso qui sopra è cacciato dai nuovi benpensanti al grido di «classista! razzista! oscurantista!». L’inquinamento demagogico è penetrato nel profondo.
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A proposito di ideologie. Quella femminista (mi è già capitato di farvi cenno in alcune di queste divagazioni) non ha alcuna risposta alla constatazione più semplice: «Nelle democrazie dove si vota liberamente, il numero delle donne elettrìci è sempre statisticamente superiore a quello degli uomini. Dunque, se il voto femminile convergesse compatto su altre femmine, queste potrebbero dominare il mondo, stravincendo in tutte le elezioni». In realtà, come ben sanno gli analisti politici, le donne sembrano non aver fiducia delle donne, almeno in politica, visto che in maggioranza scelgono candidati maschi. E, questo, in ogni tipo di elezione.
Trovo adesso una divertente conferma del grottesco di questa ideologia che partorisce mostri giuridici come quelle “quote rosa” che umiliano ogni donna consapevole della sua dignità. Una equipe di sociologi americani ha risposto a quasi tremila offerte di lavoro nei campi più vari. Al curriculum vitae, inventato, è stata acclusa la fotografia del finto candidato o candidata. Dalla analisi delle risposte è risultato che il tipo umano più sfavorito, quello che ha ricevuto meno convocazioni da chi offriva un lavoro è il tipo definito come “donna giovane, carina, preparata”. Il contrario, cioè, di quanto si aspetterebbero gli ingenui. Ma il fatto è – spiegano i sociologi autori della ricerca – che il personale delle agenzie di ricerca del personale è, per la quasi totalità, femminile. E le donne, osservano i ricercatori, non sembrano voler offrire chances lavorative tra loro a chi – stando alla foto acclusa al curriculum e stando agli studi compiuti – rischia di essere più carina e più brava di loro. Scatta in loro, dicono i ricercatori, una sorta di gelosia, di paura della concorrenza nei riguardi degli uomini.
Insomma, le donne non votano le donne; anzi, escluderebbero volentieri le altre (soprattutto se belle e brillanti) dal mondo del lavoro. Verità oggettive, fatti non smentibili. Ma, qui pure il rischio è alto: constatare simili cose significa sfidare la censura della Inquisizione, quella politically correct.
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Non si ripeterà mai abbastanza che Dio non ha bisogno delle nostre bugie o delle nostre manipolazioni della storia, magari per adeguarci allo spirito del tempo, nella speranza di suscitare simpatie nei nostri contemporanei.
Per stare a un fatto recente: la Corte Costituzionale dell’India ha deluso le lobby gay, confermando la condanna prevista dal Codice penale per il “reato di omosessualità”. Tra coloro che hanno protestato per il mantenimento di quel reato c’è stato anche, a nome della Conferenza Episcopale dell’India, che presiede, il cardinal Oswald Gracias, arcivescovo di Bombay, ora Mumbai. Ha affermato il porporato: «La Chiesa cattolica non è mai stata contraria alla depenalizzazione dell’omosessualità, perché mai ha considerato come criminali coloro che la praticano. In quanto cristiani esprimiamo loro il nostro pieno rispetto verso questi fratelli. La Chiesa cattolica si oppone alla legalizzazione del matrimonio tra persone dello stesso sesso, ma insegna che gli omosessuali hanno la stessa dignità di ogni essere umano».
Preciso subito: non intendo prendere posizione, qui, su una questione così arroventata e ancora ben lungi dal trovare unanimità di consensi. Nella Chiesa e fuori. Già ne ho parlato altrove. Ciò che ora interessa osservare è che, pur dando per scontate le buone intenzioni, le parole del presule indiano non rispecchiano né la Scrittura né la Tradizione. Quanto alla Bibbia, lasciamo pur da parte la pena di morte prevista, senza eccezioni, per i “sodomiti” nell’Antico Testamento. Quanto al Nuovo, accenniamo solo al san Paolo che, sin dal primo capitolo della lettera ai Romani, parla di «passioni infami», «atti ignominiosi», «intelligenza depravata » e altro, sino a concludere che «gli autori di tali cose meritano la morte».
Per venire alla Tradizione cattolica, sorprende davvero che il cardinale indiano affermi che «la Chiesa non ha mai considerato criminali coloro che praticano l’omosessualità». Per ricordare soltanto alcune prese di posizione del Magistero: un papa proclamato santo, Pio V, pubblicò una Costituzione apostolica significativa sin dalle due prime parole: Horrendum illud. Nel documento si giudica «il supplizio capitale opportuna punizione per l’orrendo crimine del peccato contro natura». Lo stesso pontefice in un’altra Costituzione, Cum primum, ammonisce i magistrati civili che «se saranno negligenti nel punire questi crimini, ne saranno colpevoli al cospetto del giudizio divino». Ma già sant’Agostino affermava che gli atti di sodomia «devono essere condannati e puniti dalla Chiesa ovunque e sempre». E quel Santo sapeva quel che diceva, visto che nelle sue Confessioni sembra far capire che, prima della conversione, egli pure non disdegnò il costume del Basso Impero Romano, per il quale era pratica normale, anche per i non omosessuali, la pederastia con i giovani schiavi. Per tornare ai papi, Gregorio XIII, promulgando gli Statuta Urbis Romae, confermò che anche, anzi soprattutto, nell’Urbe i sodomiti dovevano essere condotti al rogo. Sul piano più alto, quello del Diritto Canonico, la condanna più severa è stabilita nel Decretum di Graziano e nel Concilio Lateranense III fu approvato un canone che ribadiva la pena di morte per i sodomiti, pena preceduta dalla solenne scomunica.
Si potrebbe continuare, ma ce ne è abbastanza per mostrare che la tolleranza cattolica nei riguardi dell’omosessualità non è mai esistita: al contrario, il termine “crimine” (checché se ne dica a Bombay) è ribadito nei termini più espliciti. Oggi si può, anzi si deve, approfondire un tema che sembra diventato addirittura centrale nel dibattito anche politico. Ci sarà lavoro, nella Chiesa, per teologi e moralisti per stabilire se e come sia stato giustificato tanto rigore verso una minoranza spesso incolpevole e che, enigmaticamente, si rinnova in ogni popolo a ogni generazione. Occorrerà però confrontarsi con quanto Scrittura e Tradizione, unanimi, hanno sempre insegnato, non rimuovendo un costante insegnamento sia biblico che canonico. Non è né lecito né utile ad alcuno cambiare la carte in tavola per cercare la benevolenza del pensiero egemone attuale. Non dimenticando, peraltro, che la condanna cristiana non è certo isolata ma rispecchia quella di ogni altra religione e società. Oggi ancora, con la sola eccezione dell’Occidente liberal.
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Interrompo un attimo la “pesca” nei miei appunti e procedo al consueto, obbligato giro di ogni sera su Internet. Così, su La Nuova Bussola Quotidiana vedo la replica di mons. Luigi Negri, l’arcivescovo di Ferrara, al solito prete “adulto” che, credendosi coraggioso e informato (mentre non è che conformista e ignaro della storia, quella vera) chiede il consueto perdono. Naturalmente non per sé, per altri. Per gli antichi crociati, cioè, che – a differenza di lui, uomo ecumenico, aperto, amante della pace – non avevano compreso nulla del Vangelo ed erano partiti in armi per “liberare” il Santo Sepolcro.
Continuando poi il mio giro sulla Rete, càpito sulle grandi celebrazioni all’isola d’Elba per il bicentenario dell’arrivo di Napoleone, per un esilio che durerà ben poco. Vedo foto e filmati di cortei in costume e sento parole commosse – anche di autorità e studiosi – per il grand’uomo.
Ora: non voglio riprendere, Dio scampi!, gli eterni discorsi (anche da me praticati, in questa rubrica) sia sulle Crociate che su quel Còrso fatale. Mi limiterò a un solo dato, visto che il prete cui mons. Negri ha replicato parlava dei “massacri” che sarebbero stati provocati dalle Crociate. Queste durarono ben due secoli ed è assai arduo cercare di calcolare quante vite siano andate perse per causa loro. Ma vedo che c’è un certo accordo tra gli storici per un dato presunto ma, pare, abbastanza attendibile. Sembra dunque che, tra cristiani e saraceni – tra perdite sul campo, epidemie e altro – i morti in duecento anni siano stati attorno ai 50.000.
Veniamo a Napoleone e arrestiamoci a una sola campagna, quella di Russia. La Grande Armata – la più numerosa schierata sino ad allora – partì alla fine del giugno del 1812 e i pochi superstiti ritornarono alle frontiere francesi alla fine di gennaio dell’anno successivo. Solo sei mesi, dunque: ma erano partiti in 600.000 mila e di essi 400.000 morirono per le ferite, le malattie, il freddo e la fame. Altri 100.000 furono presi prigionieri e di essi la maggioranza morì per gli stenti, i maltrattamenti, il clima. I restanti 100.000 ce la fecero a sopravvivere a quell’inferno, ma di essi molti erano feriti, storpiati, rovinati nella salute e si calcola che almeno la metà morisse in poche settimane dal rientro. L’età media di quegli sventurati, in maggioranza coscritti, era di poco superiore ai vent’anni. Volendo, mettiamoci pure che assieme agli uomini morirono tutti i 200.000 cavalli dell’Armata. Quanto ai russi, i loro caduti in battaglia furono circa 150.000 ma le perdite furono altissime tra i civili, soprattutto i contadini dei villaggi e delle fattorie sulle strade percorse avanti e indietro da enormi masse di soldati, affamati e inferociti. Decine di migliaia di morti, per freddo e fame, ci furono poi tra gli abitanti della capitale costretti ad abbandonare Mosca e ad accamparsi all’addiaccio.
Insomma: sei mesi di Napoleone – l’uomo da cui inizia la modernità, l’araldo della rivoluzione, colui che “portava i diritti dell’uomo sulla punta delle sue baionette” – sei mesi e all’incirca un milione di morti. Più, ovviamente, l’enorme catasta degli altri delle infinite guerre del parvenu fattosi da solo imperatore. Duecento anni di crociate: quanto ai morti, venti volte in meno.
Naturalmente, non sto a riprendere il discorso (mons. Negri l’ha fatto molto bene) sul fatto che i cristiani devono pensare a sé, alle loro responsabilità: dunque, devono rispondere per le crociate non per le guerre del Bonaparte, che hanno subìto. Certo, ma non dimenticando mai ciò che invece anche tanti cattolici dimenticano e, cioè, l’inizio di tutto. Ci furono morti sulla via di Gerusalemme, ma in una guerra difensiva. Nessuno pensò alla crociata fino a che l’islam permise il pellegrinaggio ai luoghi sacri della cristianità. La campagna russa di Napoleone fu un’aggressione, le Crociate una difesa. Furono, non lo si ripeterà mai abbastanza, “un pellegrinaggio forzatamente armato”, una riapertura con le armi di una porta sacra che era stata chiusa, furono una necessità, non certo un desiderio di conquista, di potere, di vendetta.
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Friederich Nietzsche è una inquietante miniera dove, malgrado anni di frequentazione, trovo sempre qualcosa che mi era sfuggito. La sua opera è il completo rovesciamento di quella di Pascal, eppure i due sono accomunati non soltanto dal pathos, dalla passione per difendere o per distruggere il cristianesimo, ma anche dal gusto del frammento, breve e memorabile.
Ecco uno dei frammenti del tedesco che mi era sfuggito. Una sorta di paradossale elogio – chi l’avrebbe detto? – del celibato ecclesiastico da parte di colui che, nel suo delirio, si credeva l’Anticristo: «Lutero restituì al sacerdote il commercio sessuale con la femmina. Ma i tre quarti della reverenza del popolo verso preti e frati poggiano sulla fiducia che un uomo che è eccezionale nell’impresa di sapere rinunciare al sesso sia eccezionale anche per ogni altro riguardo. Costui ha davvero, volontariamente, rinunciato alle donne? Una simile forza di volontà può essere solo di un uomo superiore, in ogni caso diverso da noi».
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Visto che siamo in vena di citazioni. Trovo, tornando ai miei appunti, una preghiera di quegli indiani Sioux che affrontarono coraggiosamente coloni ed eserciti dei nascenti Stati Uniti, per finire poi sterminati e i superstiti rinchiusi in riserve. Ebbero, quei nativi americani, una religiosità sapienziale, non priva di valori. Ecco la preghiera che ho appuntato e che mi ripeto io pure quando sono tentato di condannare frettolosamente qualcuno: «Grande Spirito! Fa che io non giudichi nessuno prima di avere camminato a lungo con i suoi mocassini!».
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A proposito di indiani americani. Pochi sanno che i tedeschi ne fecero prigionieri molti – in Tunisia, sul fronte di Cassino, in Normandia – che erano stati arruolati recalcitranti, a forza, nell’esercito degli Usa e impiegati nelle occasioni più pericolose. I catturati chiesero (e ottennero da Himmler in persona) di formare un reparto speciale delle Waffen SS per combattere contro gli americani e vendicare così gli antenati massacrati. Il loro desiderio di rivalsa era tale che le stesse SS dovettero intervenire perché, ogni volta che catturavano un soldato yankee, volevano scotennarlo e appendere lo scalpo al loro cinturone da soldato tedesco. Questo era troppo persino per quegli spietati nazionalsocialisti. È un esempio significativo di quale odio abbia saputo suscitare un Paese che considera se stesso “l’Impero del Bene”, un popolo messianico prediletto da Dio per diffondere pace e benessere nel mondo. E che pure, statistiche alla mano, ha fatto (e fa tuttora) più guerre di qualunque altro. E in pochi decenni, per far posto a sé, ha sterminato un popolo intero.
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