Ancora una volta, diamoci a una sorta di slalom tra cronaca e storia, per cercare la prospettiva che rispetti quella verità la cui ricerca è dovere primario del credente.
Per cominciare leggo, tra mille esempi: «Il diritto di sciopero fu una grande conquista della Rivoluzione francese e, ovunque altrove, della sinistra». Che sfacciataggine! È vero il contrario: la sanguinaria Convenzione dominata dai giacobini (la prima “sinistra” della storia, sin dal nome, fino ad allora sconosciuto in politica), la Convenzione, dunque, approvò nel 1791 una legge detta di “Chapelier”, dal relatore. Con quel provvedimento – la cui sanzione era la sola comminata in quegli anni: la ghigliottina – si proibiva ogni sciopero e si vietavano tutte les coalitions, tutte le associazioni tra lavoratori, quelli che noi chiamiamo “sindacati”. Una simile proibizione si inquadrava nella prospettiva rivoluzionaria di eliminare tutte le realtà intermedie tra lo Stato e le citoyen. Il quale, così, era indifeso di fronte alla volontà, deificata, dei sedicenti “rappresentanti del popolo”, mentre, da secoli, il lavoratore era stato tutelato – dall’apprendistato sino al ritiro per vecchiaia e alla morte stessa – dalle corporazioni e dalle confraternite cattoliche. Privi di ogni aiuto comune, operai e braccianti agricoli (i milioni di contadini senza terra) erano così esposti all’arbitrio di industriali e di proprietari terrieri. I ricchi, insomma, difesi da quella Rivoluzione che, come si sa, non fu certo del popolo ma della borghesia che voleva prendere il posto dell’aristocrazia come classe dominante.
Il divieto giacobino di coalition, di creazione di sindacati, faceva troppo comodo ai privilegiati per essere abrogato quando anche a Robespierre e sodali toccò di salire sulla carretta che li portava verso la ghigliottina. Sancito, lo dicevamo, nel 1791, all’inizio del Grande Terrore, il divieto di sciopero e di associazione sindacale fu abrogato (pur con limiti) soltanto da Napoleone III, nel 1864. In Italia addirittura nel 1890, col Codice di Zanardelli. Ma ecco allora un altro paradosso su cui tacciono gli storici “progressisti”: invece di rallegrarsi, i dirigenti del nascente socialismo si preoccuparono. È quanto si verificherà anche nei decenni successivi, sino a noi. I “rivoluzionari”, infatti, temono soprattutto che migliorino le condizioni del popolo di cui si sono proclamati rappresentanti e difensori. Se le richieste dei lavoratori sono accolte dai governi e dagli odiati “padroni”, che ci stanno a fare quelli che campano sulle loro proteste, sulle loro miserie, sull’odio sociale che in ogni modo cercano di fomentare? Io stesso, se è lecito rifarsi a un’esperienza personale, vidi quanto successe nella Torino della Fiat guidata dal massone esplicito e insieme anticomunista di ferro Vittorio Valletta. Questi – vuoi per politica aziendale, vuoi per autentica sensibilità sociale – fece delle decine di migliaia di operai della grande azienda, la maggiore d’Italia, dei privilegiati rispetto a tanti altri. Case popolari, una mutua sanitaria autonoma, ospedali riservati, premi di produzione, colonie estive per i figli, provvidenze per i pensionati anziani, scuole professionali, 500 e 600 a condizioni straordinarie e molte altre misure assistenziali. A ciascuna di queste, il Partito comunista rispondeva rabbiosamente, mettendo in guardia i lavoratori da quello che chiamava “paternalismo ipocrita”, “inganni del padrone”, “astuzie del capitalismo”, “tentativi di fiaccare la tensione rivoluzionaria”.
Insomma, avvenne nella mia città di allora quanto già si era visto nella Francia di Napoleone III, dove l’abolizione del divieto di sciopero e di organizzazione sindacale, venendo dal governo e non dalle “lotte operaie”, fu bollata come «dangereux socialisme césarien», pericoloso socialismo cesariano, e fu chiesto ai lavoratori non di gioirne ma di diffidarne. Tornando, dunque, a ciò con cui abbiamo iniziato: altro che un fondamentale diritto strappato dalle generose lotte della gauche!
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Per stare a cose francesi e a paradossi storici. Così come ho l’età per ricordare la Torino di Valletta, ho l’età anche per ricordare la Parigi (vi andai da ragazzino, la prima volta) déchirée, “lacerata” tra chi sosteneva e chi malediceva la guerra che l’esercito francese combatteva in Algeria contro lo FLN, il Fronte di Liberazione Nazionale. Guerra dove entrambi i contendenti gareggiavano in ferocia e in torture: soldati e insorti erano al contempo vittime e carnefici. Non ho particolare ammirazione, anzi ho una giustificata diffidenza verso De Gaulle ma, con realismo cristiano temo – soprattutto in politica – ogni idealismo che implacabilmente ottiene effetti contrari alle buone intenzioni. Dunque, comprendo bene perché, malgrado il suo nazionalismo, si sia visto costretto ad abbandonare quella terra, provocando una catastrofe umana e sociale. L’esodo, cioè, di un milione e mezzo di europei che vi avevano duramente lavorato, amandola e trasformando il deserto in fertili campagne. Ma se, per varie ragioni che qui non è il caso di trattare, poco ammiro quel Grand Charles, come lo chiamavano i suoi seguaci, mi infastidisce anche il solito schematismo ideologico di quelle sinistre che – capitanate allora da Jean Paul Sartre – non avevano che ammirazione e solidarietà per i partigiani algerini e disprezzo e odio per i pieds-noirs, gli europei immigrati che volevano restare là dove erano nati non solo essi stessi ma, spesso, anche i loro padri e nonni.
Vediamo, dunque, come le cose siano andate, in quegli inizi che nessuno, anche tra i francesi, sembra ricordare: come sempre, la storia, quella vera, ribalta tanti luoghi comuni. L’Algeria fu conquistata dalla Francia nel 1830 non per ragioni colonialistiche, sapendo bene che l’impresa sarebbe costata assai più di quanto avrebbe reso, ma per ragioni di sopravvivenza. Non a caso, l’attacco deciso da Parigi fu approvato dall’Inghilterra, dalla Spagna, dal Regno delle Due Sicilie, dall’Austria e da tutti gli altri Stati del Mediterraneo settentrionale. Il fatto è che Algeri era divenuta sempre più la capitale di quella pirateria saracena che da secoli infestava il Mediterraneo. Il Paese solo nominalmente dipendeva dalla Turchia, in realtà era un vero e proprio Stato di corsari che nella razzie e nei riscatti trovava la sua ricchezza. Sembra incredibile, ma a poca distanza dall’Europa ottocentesca, sulle piazze algerine si vendevano a migliaia gli schiavi cristiani catturati in raid nei villaggi sulle coste. Anche le navi europee erano assaltate, l’equipaggio messo esso pure in catene e offerto in vendita, mentre si esigeva un altissimo riscatto ad armatori e governi per riavere almeno le imbarcazioni. Molti maschi venivano castrati per servire in quegli harem dove finivano le più giovani e belle battezzate catturate, mentre bambini e ragazzi erano convertiti all’Islam ed allevati perché essi stessi diventassero pirati. Qualche volta si era provato a bombardare i porti ma, a parte la reazione delle artiglierie costiere degli agguerriti pirati, i danni venivano subito riparati e gli schiavi non erano liberati: anzi, si infieriva ancor più su di loro, per vendetta. Successe persino che si legassero decine di battezzati davanti alle bocche da fuoco, straziandoli con i proiettili sparati: davanti a ricatti così feroci, agli ammiragli delle flotte europee non restava che ritirarsi.
Bisognava, dunque, risolvere il problema alla radice: non spedizioni punitive dal mare ma uno sbarco massiccio, per ridurre all’impotenza la casta corsara, distruggere completamente la flotta e gli arsenali e ridare la libertà agli schiavi. Il compito fu assunto dalla Francia ma, come si diceva, con l’incoraggiamento di tutti i governi, a cominciare da quello della Gran Bretagna: la Royal Navy era costretta a scortare in forze i convogli carichi di merci. Tra l’altro: come chiesto proprio dall’Inghilterra, l’occupazione francese avrebbe dovuto essere temporanea ma, effettuato lo sbarco e sbaragliate le forze terrestri del governo piratesco, successe l’imprevisto. Buona parte della popolazione dell’interno, cioè, accolse con entusiasmo i Francesi e li scongiurò di restare, perché gravati dalle tasse imposte dai Turchi e dalle prepotenze dei corsari che detenevano il potere ad Algeri. Ancor più: dalle montagne scesero in armi le tribù dei berberi, da secoli oppresse dalla minoranza araba: quelle truppe “private” chiesero di aggregarsi all’esercito francese. Accolti, divennero famosi come zouaves, quegli zuavi che da allora non solo combatterono con i Francesi ma furono considerati tra i più valorosi e fedeli al tricolore gallico. Decine di migliaia di loro, tra l’altro, morirono combattendo contro i Tedeschi nella Grande Guerra. Insomma, gli “invasori”, acclamati al loro arrivo dalla maggioranza come liberatori, furono in qualche modo costretti a restare.
L’inquadramento storico può servire per comprendere come siano andate davvero le cose in Algeria: in effetti, la guerriglia – iniziata nel 1954 – per espellere gli europei che consideravano ormai quella terra come la loro, è stata mitizzata dai comunisti. E presentata come una sorta di caso esemplare di liberazione di un Paese oppresso dal colonialismo europeo. In realtà, le cose sono sempre molto più complesse di quanto non vogliano le ideologie, a cominciare da quella marxista: all’inizio dell’occupazione ci fu (innanzitutto) non un calcolo economico, anche se il danno al commercio era enorme, ma la legittima difesa dalla barbarie delle razzie e della schiavitù. L’occupazione permanente fu chiesta dalla maggioranza degli algerini stessi. L’immigrazione dall’Europa, inoltre (non soltanto francese ma anche italiana e spagnola), non fu di biechi capitalisti venuti per dissanguare gli sventurati indigeni. Fu, invece, di povera gente, soprattutto di contadini che trasformarono terre desertiche o malariche in un giardino e fecero di Algeri e di Orano le città più moderne dell’intero continente.
Ma, dicono: resta il fatto che i “bianchi” appartenevano a una casta che si credeva superiore, visto che gli “indigeni” non godevano, come gli immigrati dall’Europa, della cittadinanza francese. Ebbene, qui pure si realizzò un paradosso come quelli cui accennavamo sopra: infatti, la cittadinanza finì per essere estesa a tutti, in Algeria, ma tra le resistenze violente di quelli che guidarono poi la rivolta. Diventare francesi significava sì acquisire diritti, significava avere accesso a ogni impiego, ma proprio questo temevano gli ideologi, il cui impegno consisteva nell’aumentare l’odio verso i “colonialisti”, gli algerini di origine europea. Insomma, anche ad Algeri (come nella Torino di Valletta) l’interesse concreto del popolo fu sacrificato allo schematismo politico.
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La conoscenza della storia eviterebbe tanti errori e tante iniziative dannose. Per stare a un caso d’oggi: un gruppo non sai se di scriteriati o di macchiette di provincia ha tentato, per la seconda volta, di “liberare il Veneto” sventolando il vessillo di Venezia. Volevano (e vogliono) essere di nuovo sudditi non di Roma ma della Serenissima. Non entro, qui, in questioni politiche. Mi interessa solo ricordare che Venezia fu sempre una città stato, in un isolamento non solo fisico, tra le lagune, ma anche dettato dall’orgoglio. Venezia dominò un impero multietnico, mai pensò di essere la capitale di una “nazione veneta”. Quello che ora chiamiamo “Veneto” era per i veneziani solo la “Terraferma”, guardata con superiorità, comunque non considerata diversa degli altri dominii come la Dalmazia e le isole dell’Egeo. Quella terra serviva alla Serenissima per controllare il corso dei fiumi perché non insabbiassero la lagune; per mettere una distanza tra la città e nemici invasori; per ricavare legname per le navi dalle foreste. Serviva anche ai superbi nobili del Maggior Consiglio per feudi agricoli dove tenere alla fame i contadini, tra paludi e allagamenti su cui non ci si curava di intervenire, se non minacciavano Venezia. Quando giunse l’esercito di Napoleone, la Serenissima cercò di salvare la cittàstato e abbandonò al suo destino la Terraferma, lasciando senza aiuti i contadini che insorgevano al grido di “Viva San Marco”. Ma la fine fu rapida e disonorevole, una resa senza condizioni e senza gloria. Io, come tutti, ammiro Venezia, anzi la amo, apprezzo molti aspetti del suo sapiente sistema di governo, finito senza neppure un gesto di difesa ma che si era mostrato efficace per oltre mille anni. Ma scuoto il capo vedendo veneti attuali che, sventolando il Leone alato, pensano che quella sia stata anche la loro bandiera e ne sono nostalgici.
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Mi giunge un libro edito dalle Edizioni del Laterano. Spiacevole, va detto, che l’Università cattolica per eccellenza, quella “pontificia” per vincolo diretto con la Santa Sede, abbia assunto per le sue pubblicazioni il nome di Lateran University Press. Riconoscendo così, alla pari del mondo degli affari, che la lingua universale è – ed è soltanto – l’anglo-americano. Peccato, visto che l’idioma ufficiale della Chiesa è, malgrado tutto, il latino: credono davvero, i preti, che il prestigio dei loro libri sia aumentato, e non, piuttosto, diminuito, rimuovendo una tradizione millenaria e presentandosi col nome editoriale non nell’idioma di Roma – universale per eccellenza – ma con quello del business internazionale? Mica si pretende, certo, che i testi siano nella lingua che fu dei Padri della Chiesa e di san Tommaso, ma si vorrebbe che il marchio fosse un semplice Lateranenses Editiones. E invece, ecco un biglietto da visita, questo Lateran University Press, che è segno semmai di provincialismo, di complesso di inferiorità rispetto alla cultura egemone e non di apertura al moderno.
Quale che sia il marchio editoriale, mi arriva (lo dicevo) dal Lateran un denso ma svelto volume – 200 pagine – dal titolo Umanesimo cristiano e modernità, sottotitolo Introduzione alle encicliche sociali. Ne è autore Maurizio Ormas, docente presso quell’Ateneo Pontificio proprio di Magistero Sociale. Posso segnalarlo con libertà, visto che di persona non conosco quel professore, dunque non sono sospettabile di favoritismo amicale. Credo che potrà interessare in particolare i lettori de il Timone in quanto, pur nel rigore accademico, ha una intenzione sanamente apologetica. In effetti, esaminando il magistero sociale della Chiesa, quale si esprime nelle encicliche papali e nel Concilio ultimo, sono indicati in esso (cito dalla quarta di copertina) «gli ideali che fanno ormai parte del patrimonio etico di gran parte dell’umanità e sono sanciti nelle convenzioni internazionali». Ma si dimentica spesso che «è anche grazie al magistero sociale cattolico se quegli ideali vengono indicati come fondamenti del vivere civile e, quindi, come mete cui aspirare ».
Vediamo, allora, l’elenco sintetico di alcuni di quegli ideali che, spesso, i Papi proposero per primi, rimanendo talvolta quasi soli. È un elenco che vale la pena di esaminare con attenzione: «L’ideale della fraternità e della solidarietà tra i singoli e tra i popoli; la pace come frutto della giustizia; i diritti dell’uomo che precedono gli ordinamenti positivi degli Stati; l’equità come fondamento della giustizia e della legalità; il valore del lavoro per la realizzazione di sé in senso personale e sociale; la sussidiarietà come condizione di una soggettività sociale più ricca; il prevalere del bene comune rispetto agli interessi di parte; i diritti educativi della famiglia di fronte allo Stato; l’impegno della religione a favore della pace». È impressionante sino a che punto sia giunta la profondità se non il profetismo di un insegnamento che non ha mai smentito se stesso, malgrado certe apparenze. In realtà, a un esame più attento, si scopre che non c’è stato cambiamento ma approfondimento. Come avvenuto, del resto, non solo con la dottrina sociale ma pure con la dogmatica, come dimostrò John Henry Newman.
L’analisi di Maurizio Ormas è basata soprattutto sulle encicliche, la cui storia non è più lunga di due secoli. Leggendo, mi veniva in mente l’ultima intervista strappata – forse approfittando del suo stato di prostrazione e non a caso pubblicata postuma per evitare smentite – strappata, dunque, al cardinal Carlo Maria Martini ormai morente. Il già arcivescovo di Milano avrebbe detto che la Chiesa «deve recuperare un ritardo di duecento anni». È proprio lo spazio temporale coperto da questo Umanesimo cristiano e modernità che dimostra come in realtà spesso sia stato il mondo e non il magistero ecclesiale ad essere in ritardo. Magari proprio di un paio di secoli.
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