Questa è una fotografia come tante, come molte che i media ci propongono ogni qual volta il Papa, anzi un Papa (cioè sempre il Papa) incontra i fedeli dei più remoti angoli del globo. Ce ne sono tante di foto così, scovate in un istante di raccoglimento possibile sempre anche dentro le folle oceaniche, o pescate nei pressi di un qualche santuario, di una qualche chiesa o anche solo di una qualche immagine miracolosa. E sempre più spesso scatti così si ripetono nel mezzo dello scempio di una catastrofe naturale o – peggio ancora – nell’inferno terrestre scatenato dalla più terribile persecuzione anticristiana mai accaduta nella storia, quella in corso nei secoli XX e XXI. Quotidianamente vediamo cristiani caldei o copti, siriaci o maghrebini, indiani o africani, asiatici o sudamericani attaccarsi all’ultima speranza della vita, quella che non delude mai perché anzitutto e soprattutto è la prima speranza della vita; meglio, l’unica. Una croce smozzicata sopravvissuta alle distruzioni degli uomini o agli uragani, una chiesa diroccata, una coroncina consunta dallo sgranare quotidiano della preghiera.
Questa è una fotografia come tante, come molte che i media ci propongono dei cristiani del mondo, provati, sofferenti, sempre colmi di speranza.
Questa, in particolare, la propone l’agenzia ANSA, scattata durante la Messa celebrata dal Papa a Manila, domenica, a conclusione del suo viaggio apostolico nelle Filippine. Pare siano state presenti 7 milioni di persone, un record senza precenti, la potenza semplice e umile della Chiesa autentica, un popolo enorme fedele a Cristo e al suo Vicario, milioni di persone tutte o oguna non dissimile da quella effigiata in questa fotografia.
La memoria torna al giorno prima. Praticamente lo stesso scenario, certamento il medesimo clima inclemente e ancora migliaia e migliai di fedeli venuti per il Papa, per Cristo. È sabato 17 gennaio; siamo a Tacoblan. Il Papa celebra una Messa “rocambolesca”; "rocambolesca" perché il tifone Amang incalzava e il Pontefice riusciva a malapena a levare la voce. Il Papa ha resistito alla sferza, ha tenuto duro, ha preferito improvvisare il discorso nonostante lo avesse prima preparato, ha mescolato inglese e spagnolo esattamente come si fa nelle strade e nelle case delle Filippine, e quando è stato costretto a lasciare il luogo ci ha rimesso pure l’ennesima papalina soffiata via dal vento impetuoso. Era come vedere un film, bellissimo, soprattutto perché vero, e quindi commovente. Il Successore di Pietro che cerca di tenere e mantenere la barca della Chiesa assalita dalle onde, sfiancata dai flutti, sommersa dalle acque che tutto inghiottiscono. E lì il Papa, debole di tutta la propria umanità e forte del proprio carisma unico di Vicario di Cristo, non si ergeva certo come un eroe, ma resisteva forte di una forza non sua e coraggioso di un coraggio non suo come un nocchiero, un timoniere, un comandante che non perde la rotta. Sembrava, il Papa, il santo curato d’Ars, o un don Camillo della Bassa: un umile e semplice prete dell’ordine però eterno e maestoso di Cristo sommo sacerdote che guida una moltitudine smarrita nei pericoli del deserto, del Mar Rosso, del lago di Tiberiade anche scarmigliato e pur spettinato com'era. Il sacerdote dei sacerdoti. Come non vedervi, del resto, quasi in sovrimpressione, l’immagine di Gesù che rincuora gli apostoli nella tempesta camminando sulle acque, facendosi obbedire dagli elementi infurianti del meteo, placando le procelle?
Sì, a Tacoblan il Papa a un certo punto è stato costretto a cedere a quegli elementi del cielo che sembravano obbedire a una forza malvagia tutta tesa a impedirgli di svolgere la sua missione, cioè confermare i credenti nella fede e guidare la Barca di Pietro. Ha dovuto “domandare scusa” ai fedeli della propria fragilità umana e lasciare la scena per ottemperare ai pressanti inviti del servizio d’ordine e di sicurezza. Ma lo ha fatto con la forza del Vicario di Cristo, intimando con vigore quasi per un attimo accigliato, un secco «Be quiet!» alla folla che mugugnava per la sua decisione di andarsene anocra non capendo sino in fondo; lo ha fatto con piglio, da capo, da chi arretra di un passo solo per avanzare poi di due, chi sembra cedere a una battaglia ma per vincere la guerra. Il Papa non è uno sconsiderato, non cerca stupidamente il martirio per farsi bello, sa insomma (a differenza di chi si perde nelle proprie sciocchezze) quando è ora di lasciare. E a Tacoblan ha deciso di farlo solo perché la sua suprema missione l’aveva compiuta.
Ecco, nella fotografia dell’Agenzia ANSA c’è dentro tutto questo, un istante immortalato per sempre e fissato nel suo meraviglioso significato, da Tacoblan a Manila.
Una fedele filippina come tanti fedeli, sferzata esattamente come il Papa e come migliaia di fratelli da ciò che le ringhia minaccioso e violento attorno, santa e peccatrice come tutti, sfodera l’arma divina di battaglia e vittoria, il santo rosario, e lo fa da sotto il cappuccio per la pioggia, di un colore improbabile, un po’ pacchiano diciamocelo, da massaia al mercato, da hooligan allo stadio, ma quel giorno una divisa scintillante per il Re dei Re. Perché la verità di quel gesto semplicissimo compiuto con la beata non curanza di chi ha comunque il cuore puro è il rosario nella tempesta, il rosario per il Papa, il rosario davanti al Papa. Un rosario di plasticaccia, davvero cheap, ma in sé il più prezioso del mondo. Il Papa, alter Christus anche quando sopra la talare candida ma inzaccherata indossa l'impermeabilino giallo bruttarello di plastica trasparente, questo gesto lo ha certamente visto, lo ha comunque veduto: ed è bastato quello per proclamare la vittoria, per dichiarare sconfitta la furia impetuosa che voleva impedirgli di testimoniare Cristo fino agli estremi confini della Terra. Il Vicario di Cristo ha guardato la statua della Madonna anch'essa sferzata dalle intemperie e ha obbedito a un volere non di uomini. Ora è tempo di andare.
Quella foto è come un’icona della fede quotidiana. Ci spalanca la porta dell’assoluto di Dio.
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