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Card. Bagnasco: «Se la fede non diventa giudizio sulla realtà nega se stessa»
NEWS 3 Giugno 2024    di Samuele Pinna

Card. Bagnasco: «Se la fede non diventa giudizio sulla realtà nega se stessa»

Sono pochi gli uomini che senza dubbio alcuno di primo acchito si valutano come “grandi”. Tra questi aggiungo al mio novero personale il cardinal Angelo Bagnasco: la sua amabilità, il suo tratto gentile, l’attenzione verso gli altri e il suo brillante acume lo rendono un gigante del nostro tempo. Arcivescovo emerito di Genova, ha guidato per un decennio la CEI intendendo il suo compito come un ausilio alla fraternità. Il suo stare dietro alle quinte di una struttura di servizio (così come l’ha concepita) gli ha consentito di realizzare un preciso programma: l’ascolto dei Confratelli – connotato da umiltà e rispetto – così da poter proporre alte sintesi fruibili a tutti.

Mi trovo nell’elegante abitazione del Presule quando, ripensando alle sue Prolusioni apparse in volume lo interrogo su quale sia l’autentica missione profetica della Chiesa: «Deve annunciare l’assoluta novità di Cristo e invitare alla conversione del cuore e della vita. La fede è dono di Dio, vita con Cristo, e giudizio sulla storia. In un tempo in cui è vietato “giudicare” – mentre invece si giudica spesso con superficialità e ferocia – è necessario riaffermare questo: se la fede non diventa giudizio sull’uomo, la società e la storia, nega se stessa, diventa esortazione moraleggiante, sentimento evanescente, umanitarismo sincretista e mondano. Per questo la Chiesa non può tacere: deve essere sale e lievito, luce e città visibile. Non vuole imporsi a nessuno, accoglie tutti ma non tutto».

Provoco: non c’è così il rischio di un indottrinamento o di fare proselitismo? Mi viene replicato con la ferma dolcezza tipica dell’Alto prelato quando tocca temi delicati: «Oggi, in nome della libertà di scelta e per mantenere buone relazioni – cose innegabili – si teorizza l’idea per cui la missionarietà deve ridursi a “buon esempio” silenzioso, senza motivare le scelte della fede. Si dice che il confronto tra decisioni opposte sarebbe irrispettoso e divisivo, quindi inutile e dannoso. A volte si sente persino dire che la fede sia ormai estranea e che debba aggiornarsi ai nuovi paradigmi nel pensare e nel vivere se non vuole essere confinata. Ma la Chiesa non è preoccupata di essere moderna ma attuale, cioè di corrispondere alla segreta nostalgia del cuore umano, alla sua sottile e drammatica inquietudine. Per questo la Chiesa non sarà mai indietro nei tempi, ma sempre avanti perché, grazie al suo Signore, conosce il cuore dell’uomo di ogni tempo».

Sua Eminenza appare sempre pacato, capace di mettere a proprio agio l’interlocutore. Mi sottopone le sue osservazioni soppesando con cura ogni termine: «è Gesù ad aver annunciato la verità e il bene, smascherando la menzogna e il male: per questo ha accettato il rifiuto delle folle, la solitudine e la morte. Forse ha sbagliato il metodo? Forse non ha capito che, come oggi si dice, era una questione di “linguaggio”, di “comunicazione”, e che prima di parlare avrebbe dovuto ascoltare le folle con le loro richieste, e così adeguare gesti e parole? Ha detto a tutti e in ogni luogo, una parola assolutamente unica e nuova: se stesso! In quella parola impensabile, ogni ragione umana era portata in alto, trovava luce e orizzonte, senso e valore. Il discepolo non è più del Maestro, e i cristiani non possono essere né più né diversi da Lui. Solo così la Chiesa può essere significativa, non perché ripete le parole del mondo ma perché dice Cristo. È questa la rilevanza che essa deve avere: non è la rilevanza mondana del potere, ma la rilevanza evangelica dell’annuncio che rinnova la vita».

Usciamo da casa e ci affacciamo sulla terrazza del giardino che domina la Superba con il suo porto brulicante di vita operosa. L’aria è frizzante, ma è scaldata dai raggi di un sole splendente che invita a solenni riflessioni. Il discorso si sposta sul cristianesimo: «Non è una ideologia – mi spiega il Cardinale mentre il suo sguardo si perde nell’orizzonte dove il cielo e il mare si sfiorano – o una gnosi riservata a degli eletti, ma è in fatto, l’incontro con la persona viva di Cristo, Verbo Incarnato. In Lui si fonda la dignità dell’uomo a un livello mai raggiunto nella storia: immagine somiglianza di Dio. A tale dignità corrisponde un agire morale coerente: per questo il cristianesimo non è la religione dei “no”, ma del grande “sì” alla vita, la cui origine e pienezza è Dio. È interessante rilevare che le Carte internazionali parlano della dignità umana ma non entrano nel suo fondamento: la danno per acquisita, ma in tal modo la rendono fragile». Mi soffermo sull’uomo moderno: «Questi sta conquistando l’universo, ma perdendo l’anima: nessuna ideologia, però, può sostituire gli ideali».

Domando incuriosito se sia necessaria una cura dell’anima: «Sì, e comporta il desidero e la ricerca della verità. Quale verità? Le grandi verità che stanno oltre le cose quotidiane e che riguardano l’esistenza umana, che danno senso alla vita personale e collettiva; che superano la frammentazione, che portano verso un’unità che non omologa ma armonizza. I cristiani devono, dunque, aiutare a cogliere la verità dell’uomo con l’intelligenza della fede, e annunciarla nella società con le parole della ragione, attraverso cioè un “linguaggio istituzionale”, come afferma Habermas. E poi ha una parola da dire circa il rapporto tra monoteismi e democrazia, laicità e laicismo, sulla radice del diritto, che a sua volta rimanda a natura, cultura e giustizia». Ciò richiama anche la vexata quaestio del rapporto tra la fede e la ragione: «Queste due realtà umane non sono antagoniste, ma si cerano a vicenda tanto che una ragione debole non fa una fede forte, e viceversa. Si vigilano e si aiutano a vicenda: la ragione dev’essere salvata dal razionalismo, e la fede dev’essere preservata dal fideismo. In questa prospettiva, il cristianesimo aiuta l’uomo moderno a ritrovare se stesso, lo sostiene nell’autocoscienza salvandolo dal prevalere dell’autopercezione che lo espone a ogni deriva illudendolo di essere libero».

Non trattengo una considerazione ardita: l’intero Occidente, e quindi anche l’Europa, deve forse tornare a credere? «Sì anzitutto nella ragione. Sembra un paradosso, ma le premesse soggettivistiche della modernità l’hanno allontana dal grembo della cultura classica. Non si tratta di tornare indietro, ma di non perdere le conquiste acquisite, sapendo che, se il cambiamento è forse inevitabile, il meglio non è assicurato».

A chi è stato Presidente del Consiglio delle Conferenze Episcopali d’Europa chiedo gioco forza se la Chiesa debba avere fiducia nell’Unione: «I Vescovi europei ne sono convinti, e i Papi recenti hanno ripetutamente incoraggiato questo ideale. D’altro canto, è evidente che l’Europa vive un momento difficile: circostanze di carattere politico e culturale, nonché fenomeni nuovi, sembrano originare sentimenti diversi e contrastanti, sensibilità che fanno fatica a dialogare e a comprendersi. Forse ricordi non riconciliati, paure nuove – a volte esasperate ad arte – prassi percepite poco eque creano un senso di lontananza e diffidenza, un clima di delusione e disorientamento».

Voglio sapere: qual è il problema di fondo? «Non dà ragione della realtà pensare che il benessere economico sia la chiave di volta per creare la coesione sociale e la partecipazione alla vita comune. L’Europa, prima di essere un complesso geografico, o un gruppo di popoli, o un’organizzazione mercantile e monetaria, è un’anima, un patrimonio di cultura, di ideali, di valori e di religione. È una visione, cioè un modo di concepire l’uomo, la vita, il vivere insieme. Quest’anima non è inerte, fuori dal tempo, ha preso forma concreta ispirando storia, territorio, ambiente, in sintesi, una “casa”. Ecco la Nazione che ha come paradigma la famiglia: nulla a che vedere con la patologia del nazionalismo o del populismo, che porta alla negazione dei diritti di altre nazioni, o a credere a una propria presunta superiorità e purezza. In un cammino comune, ci sono cose che devono essere uniformate, e altre che è stolta arroganza farlo: sono quelle che riguardano l’idea antropologica e quindi etica e sociale».

In questa transizione dove si situa, però, il compito della Chiesa? «Essa, di fronte a un Occidente che va contro se stesso e una modernità che deve umanizzarsi, invita ad aprirsi alla trascendenza, a non avere paura di Cristo. In nome di questa simpatia, auguriamo all’Europa un tempo salutare di “crisi”: la crisi, infatti, deve essere un passaggio benefico, come tempo di riflessione su se stessa, sul suo cammino, sul suo fondamento e il suo destino». Pungolo: il richiamo è anche alle radici cristiane? «Se non si vuole affrontare tale questione sul piano teoretico, cioè delle idee, si affronti almeno sul piano storico, cioè dei fatti. Emerge, indiscutibile, la gigantesca figura di san Benedetto da Norcia che, nella luce del Vangelo, scrisse la Regola monastica che, nel radicale disorientamento dell’epoca, riafferma il primato di Dio e ricupera l’uomo. La luce di Cristo, con le sue ricadute antropologiche e sociali, si diffuse così in tutto il Continente attraverso i monasteri benedettini e i vari rami che generò nei secoli. Non fu una conquista, ma un atto d’amore per il mondo. Purtroppo, questa coscienza nazionale e continentale fa ancora fatica a consolidarsi, a volte sembra arretrare, ma è la via necessaria».

A proposito di “via”, più prosaicamente ci spostiamo in automobile e raggiungiamo il centro cittadino: è uno spettacolo vedere come a ogni piè sospinto il Porporato venga fermato da gente di qualsiasi estrazione sociale felice di ricevere una buona parola. Colpisce che barboni in cerca di elemosine, netturbini che transitano nei caruggi in penombra e gli habitué meno eleganti dei caffè di vicoli storici conoscano e riconoscano con ossequio il Principe della Chiesa, il quale non trascura nessuno e per tutti ha un sorriso, specchio di un’anima bella. Davanti a questa variopinta umanità esprimo un interrogativo cruciale: chi è l’uomo? «Questo quesito domanda primariamente dove si àncora la sua dignità e, in una parola, qual è la sua natura. Come credenti sappiamo che il centro del creato è Cristo, ma sul piano razionale è la persona umana, icona del Verbo fatto carne. Entra in causa la natura umana, oggi poco considerata se non addirittura negata, ritenendo che l’uomo non è un dato di natura, ma un prodotto della cultura mutevole».

Ritorna di nuovo il tema decisivo della verità: «L’uomo – mi viene confermato – ha bisogno della verità, ha bisogno di conoscerla. E se non ne sente il desiderio, vuol dire che si è deformato o che è stato deformato: la sua natura è stata corrotta. Ma di quale verità? Della verità di perché vivere e di come vivere, verità che è frutto del pensiero pensante non del pensare calcolante. Nella assenza di verità si può riconoscere ogni forma di aggressione alla vita propria e altrui, di manipolazione del proprio corpo e della psiche come di ogni forma di metamorfosi antropologica. Alcuni esempi: se una civiltà si misura anche sulla presa in cura di chi è più debole e indifeso, perché allora, come si legge, ogni anno in una Nazione del nostro Occidente si fanno 50 milioni di aborti, mentre nel mondo muoiono 45 milioni di persone? Non sono i più deboli dei deboli, i più indifesi degli indifesi? E la famiglia, nucleo portante della società, grembo naturale della vita e prima palestra dei figli: perché oggi è così denigrata dalla cultura corrente e poco sostenuta sul piano politico? Perché la si riduce a qualcosa di sempre più rarefatto e fluido? La risposta è chiara: oggi si vuole un futuro fragile, incerto e sottoposto. E ancora, il diritto alla libertà educativa dei genitori, soprattutto quando si tratta di principi fondativi dell’umano e dei valori portanti dell’agire, non è forse qualcosa di irrinunciabile? Tale diritto, che concerne la visione di fondo della persona e della convivenza, è anche da affermarsi di fronte ad altri popoli e Nazioni, pur dentro a un cammino comune. Su questi valori, proprio perché sono alla base dell’umano, non è possibile trattare, poiché non si negozia sull’umanità dell’uomo, sulla sua naturale dignità».

Il mondo, dunque, avrebbe bisogno di cristiani che non vogliano essere alla moda per compiacere? «Certo, ma essi non si sentono migliori degli altri, sarebbe stolto pensarlo! E non sono dei farisei o dei dottori della Legge redivivi: sono consapevoli di essere peccatori ma “graziati” da Dio, di avere cioè ricevuto la grazia della fede come dono da vivere e da condividere. Non vogliono essere degli arcigni giudici – Dio solo conosce il cuore dell’uomo –, ma sanno che la verità è il primo e più grande atto d’amore verso il mondo: la verità certamente chiede la nostra coerenza, ma essa non cambia né diminuisce per le nostre incoerenze. Sanno che senza Dio non possono nulla, ma con la sua grazia tutto è possibile, anche la santità a cui tutti siamo chiamati».

L’ora è tarda e devo abbandonare il capoluogo ligure per tornare in quello lombardo. Il cardinal Angelo Bagnasco mi saluta con trasporto, affettuoso e attento in ogni gesto. A ogni buon conto, non vuole lasciarmi senza un ultimo sentimento positivo e mi dice con tono sereno: «L’uomo occidentale appare confuso e smarrito sulla propria identità e sul suo stesso destino. Ma dentro a questo groviglio, è presente una opportunità che – pian piano – emerge dalla coscienza distratta, si fa voce, si trasforma in attesa, diventa invocazione: è l’alba del risveglio!».

Mi congedo soddisfatto per aver potuto dialogare con un Pastore straordinario nella sua affabile umiltà. Il tempo passa come i chilometri macinati veloci, ma il pensiero si arresta sull’incontro cordiale da poco concluso. All’improvviso mi risuona nel cuore un versetto del Vangelo che non trattengo, tanto da ripeterlo nell’abitacolo a voce alta: nisi conversi fueritis et efficiamini sicut parvuli non intrabitis in regnum caelorum.

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