«“Rabbì […], dove dimori (ποῦ μένεις)?”» (Gv 1, 38). La domanda posta all’ora decima nel giorno del loro primo incontro era stato il primo passo di un’avventura che li avrebbe condotti fin lì, in quella sera di consegne e di considerazioni, una sera che tutto lasciava pensare fosse l’ultima e invece sarebbe stata la prima di una nuova identità, di una nuova libertà, di una rinnovata ed eterna Alleanza.
«Disse loro: “Venite e vedrete”. Andarono dunque e videro dove egli dimorava» (Gv 1, 39). Lo avevano seguito e avevano col tempo intuito e poi scoperto che la Sua dimora, la Sua radice, la stanza da cui guardava non era una casa, ma una relazione, un luogo da cui non usciva, ma del quale rendeva partecipi. «Nella casa del Padre mio vi sono molte dimore. Se no, vi avrei mai detto: “Vado a prepararvi un posto”? Quando sarò andato e vi avrò preparato un posto, verrò di nuovo e vi prenderò con me, perché dove sono io siate anche voi. E del luogo dove io vado, conoscete la via”» (Gv 14, 2-4). C’è differenza tra dimorare in un luogo o visitarlo. Dimorare in un luogo permette di farne il criterio con cui si sperimenta tutto, si giudica ogni realtà, si pensa anche se stessi, si misura la propria libertà. Visitarlo invece fa diventare di quel luogo l’oggetto della nostra attenzione, delle nostre misure, pian piano lo si riduce alle nostre attese e alle nostre capacità e le circostanze lo limitano. Soggiornare temporaneamente in una città o una meta turistica con una compagnia che ci determina o con
un meteo che ci disturba alla fine definirà per sempre una sosta che comunque – anche nelle migliori delle ipotesi – rimarrà estranea alla nostra vita, per quanto ci potrà affascinare. Invece abitarla, dimorarvici, ce la farà scoprire come il luogo della nostra educazione, il nido della nostra libertà, la nostra radice.
Gesù “dimora” l’amore del Padre, la relazione con il Padre e ci invita a dimorare nella relazione con Sé: «“Rimanete (μείνατε) nel mio amore”» (Gv 15, 9). Non si tratta di una meta da raggiungere, un orizzonte verso cui tendere, ma una dimora in cui stare. Senza una relazione da abitare, anche i comandamenti sarebbero un puro esercizio da ottemperare, una
dimostrazione di moralità che ci vedrebbe ancor più soli: non semplicemente abbandonati, ma anche con uno sforzo arduo, forse impossibile da compiere. Ma questo amore da dimorare non può che radicarsi nei Sacramenti, l’esperienza vitale e necessaria di Cristo che diviene esperienza di umanità nuova: non si tratta di cambiare atteggiamenti, ma di sperimentare una misura di libertà nuova su di noi e in noi: «Chi rimane nell’amore rimane (μένει) in Dio e Dio rimane in lui» (1Gv 4, 16b). Non è una questione ideale o sentimentale, bensì reale, carnale: «“Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane (μένει) in me e io in lui”» (Gv 6, 56).
Egli è il Luogo della nostra libertà e quindi è in Lui che si gioca la nostra responsabilità e la nostra grandezza, la misura del Suo amore: «esistenza di fede significa dunque esistenza nella morte per amore. Non una qualsiasi dedizione, temperata dal giudizio del momento e manipolata dall’uomo, ma un’anticipazione dell’offerta della vita in ogni singola situazione di un’esistenza cristiana» (Hans Urs von Balthasar, Cordula). Chiedersi dove realmente dimoriamo è in fondo chiedersi a quale amore apparteniamo, cosa ci genera, quale libertà ci giudica: è l’amore di Gesù che abitiamo che valuta le nostre relazioni o sono le nostre adesioni, i nostri legami che misurano la nostra relazione con Cristo?
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