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Corea del Nord comunista e raccapricciante: il neonato ucciso en plein air nel truce racconto di un rifugiato
NEWS 15 Gennaio 2015    

Corea del Nord comunista e raccapricciante: il neonato ucciso en plein air nel truce racconto di un rifugiato

di Kim XX

 

La mia città è Eundeok, nella provincia del Nord Hamgyeong, ma nacqui in Cina da genitori nordcoreani. I miei genitori si trasferirono in Corea del Nord portandomi con loro quando avevo solo pochi mesi. Erano gli anni della Rivoluzione Culturale cinese e i miei genitori decisero di fuggire. Sin dall’infanzia dovetti affrontare le dure strutture sociali nordcoreane e adattarmi a un’esistenza di discriminazioni solo per il fatto di essere nato in Cina: a scuola subivo continui atti di bullismo. Mi chiamavano «la cinese». Dopo il diploma mi fu vietato di arruolarmi nell’esercito. Mi venne invece assegnato un lavoro in una miniera d’oro a Hwandae. Sebbene non fossi in grado di intraprendere il servizio militare, lavorai duramente per entrare a far parte del Partito dei Lavoratori di Corea. Mi dissero che chiunque avesse lavorato sodo per il Partito e il Supremo Leader avrebbe potuto farlo. Trascorsi tutta la giovinezza lavorando duramente, giorno e notte. Suggerii perfino un’idea per rivoluzionare il processo di lavoro. Ma non servii a nulla. Essere nato in Cina era uno stigma troppo profondo. Era il 1994 quando decisi di lasciare la Corea del Nord e di trasferirmi in Cina. Erano gli anni duri della carestia, le razioni di cibo erano calate drasticamente e non potevo continuare l’attività che avevo avviato al mercato nero. Ero diventato il bersaglio di alcuni agenti della sicurezza. Scappai in Cina. Il primo mese mi ospitarono alcuni parenti che ancora vivevano in Cina. Nel giro di un mese mi trovarono lavoro in una casa in campagna. Lavorai lì per un anno, ma non venni mai pagato. Andai a Yanji. Lì lavorai in una miniera. come buttafuori per un ristorante e per l’Ufficio Forestale. Vissi in Cina per circa dieci anni, sempre all’ombra della legalità, saltando da un lavoro precario a un altro. Poi nel 2004 alcuni cinesi mi segnalarono alla polizia che mi arrestò per rimpatriarmi in Corea del Nord.

Rimpatriato in Corea del Nord

La mia prima prigione fu quella di Wangqing, in Cina. Poi a Tumen, vicino al confine. C’erano tantissimi altri nordcoreani, che come me avevano tentato la fuga ma che erano stati catturati. Alla prigione di Tumen ci perquisirono, ci denudarono e fummo «esaminati». Uomini e donne, tutti insieme. Rimanemmo qui per circa due settimane prima di essere spediti in Corea del Nord. Durante la prima interrogazione non dissi a nessuno di aver vissuto in Cina per dieci anni, per paura di essere punito. Quando entrai per la prima volta nel Ministero della Sicurezza di Stato di Onsong, il corridoio era così pieno di gente che non c’era spazio per muoversi. Un agente si avvicinò, mi indicò due donne dicendo che erano venute da Eundeok, la mia città, e mi chiese se le conoscessi. Guardai dietro di me e vidi due giovani ragazze, sorrisi loro e dissi che non le conoscevo. Inspiegabilmente cominciarono a picchiarmi perché avevo sorriso. Urlai per il dolore e l’agente mi frustò con la sua cintura perché avevo urlato. Ogni notte mi picchiavano fino allo sfinimento. Mi svegliavo dalle percosse sentendo freddo per poi scoprire che mi gettavano acqua gelata in faccia. Dopo una settimana mi spostarono in un altro centro di detenzione dove mi misero a spalare sabbia e demolire edifici. Una volta, una guardia ci diede un po’ di tempo per andare al fiume a lavarci. Eravamo in quattro: io, una donna incinta e due guardie. Mi chiesero di non allontanarmi troppo. Mentre mi rinfrescavo sentii la donna urlare, mi avvicinai e vidi cosa stava succedendo. Sembrava un incubo. I due uomini avevano buttato a terra la donna, le spingevano la pancia a terra e la picchiavano mentre lei urlava chiedendo pietà. Ero pietrificato e furioso allo stesso tempo. Mi chiesi se sarei riuscito a picchiare gli uomini e a scappare. Ma improvvisamente oltre alle urla della donna, sentii anche le grida di un bambino. Stava accadendo qualcosa che nessun essere umano degno di quel nome potrebbe fare: mentre la madre supplicava per la vita di suo figlio, misero il neonato a testa in giù e lo uccisero davanti ai suoi occhi. Quella scena è impressa vivida nella mia memoria come se fosse accaduto ieri. Ancora non riesco a perdonarmi per non aver reagito.

Condannato a 6 mesi

Un giorno un agente venne per portarmi ad Eundeok. Era a tre ore di treno dal luogo di detenzione in cui mi trovavo, ma dovemmo andarci a piedi e ci impiegammo due giorni. Camminai ammanettato per le strade mentre la gente mi fissava. È difficile spiegare quanto mi sentissi umiliato in quel momento. Dopo essere arrivati al Ministero della Sicurezza di Stato di Eundeok appresi che il comitato supervisore era venuto a conoscenza della mia lunga permanenza in Cina. Un funzionario del dipartimento mi avvisò che sarei stato inviato in un campo di detenzione per prigionieri politici; avrei preferito morire piuttosto che andare in quel luogo. Venni processato e condannato a 6 mesi in un campo di lavoro.

Nel campo di lavoro

Dovevo salire fino alla cima di una montagna, tagliare alberi e riportare la legna giù in pianura. Era un lavoro faticoso, c’erano sia uomini sia donne, e la circonferenza di quegli alberi era maggiore dell’apertura delle braccia di una persona. Ogni giorno, cercavamo di sopravvivere mangiando una misera razione di mais, castagne e zuppa. Alcune persone morirono di fame, alcune donne smisero di avere le mestruazioni. Sembrava di essere circondati da morti viventi. Dopo sei mesi venni rilasciato, ma non avevo idea di come ricominciare la mia vita. Non potendo immaginare alcuna speranza di vita in Corea del Nord, decisi nuovamente di provare a fuggire. Siccome le autorità sapevano che ero nato in Cina, ero sotto stretta sorveglianza. Se fossi stato catturato di nuovo, sarei stato mandato in un campo per prigionieri politici, oppure mi avrebbero sparato come esempio per altri. A quel tempo, poiché molte persone come me che erano nate in Cina e prigionieri di guerra tentavano la fuga attraversando il confine, il livello di sorveglianza era estremamente elevato.

Fuga in Corea del Sud

Fuggii in Cina. Tornai dai miei parenti, che però non erano più disposti ad aiutarmi. Rimanere in Cina era impossibile, poiché il numero di fuggitivi nordcoreani era in costante aumento, così come i controlli della polizia cinese. Mi organizzai per andare in Corea del Sud con l’aiuto di un intermediario. E dopo un lungo viaggio raggiungi finalmente Seul.

Tradotto da Beatrice Bersanini (@bea_hachi) e Santoro Songyi (@LeeSongyiSonia). La versione integrale di questo articolo è disponibile sul sito dell’Alleanza europea per i diritti umani in Corea del Nord (@EAHRNK) che ha curato la serie «North Korean Memoirs» per diffondere le testimonianze dei rifugiati nordcoreani.