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14.12.2024

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Dall’abisso della malattia sale una supplica
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11 Febbraio 2024

Dall’abisso della malattia sale una supplica

La condizione drammatica nella quale era imprigionato il lebbroso del Vangelo, proclamato oggi nella liturgia, ci provoca e ci commuove, ma può, altresì, far maturare in noi la stessa sapiente umiltà che ha generato in lui. La lebbra non solo stava devastando il corpo di quel povero malcapitato, ma lo costringeva anche in un forzato isolamento sociale e religioso: era destinato alla morte fisica e condannato a una ancor più
angosciante morte relazionale. Era considerato impuro, inadatto a entrare in rapporto con Dio e con gli uomini: da evitare, per non esserne contagiati.

(E, detto sottovoce, non cadiamo troppo alla svelta, con la supponenza di chi si crede migliore, nella tentazione di giudicare i suoi contemporanei come cattivi e disumani, perché qualcosa di simile lo abbiamo riprodotto recentemente anche noi, a suon di leggi civili ed ecclesiastiche, privandoci reciprocamente di dimensioni essenziali per la nostra vita, quali le relazioni fraterne e la vita sacramentale.)

Il lebbroso non aveva alcuna prospettiva ragionevolmente percorribile davanti a sé. Non una soluzione alla sua angoscia. Il dolore e l’odore disgustoso delle sue ferite gli parlavano solo di morte. La solitudine e la proibizione di qualsiasi forma di contatto lo privavano di dignità: non era più prezioso per nessuno. Anche il Cielo sembrava inesorabilmente chiuso per lui.

Privato di tutto, impara dalla sua stessa carne, che non può aspettarsi salvezza e liberazione né da se stesso né dagli altri. Dal fondo della sua angoscia, però, non rimane prigioniero della disperazione: vede Gesù, gli va incontro, riconosce in Lui la presenza di Dio stesso che visita la sua vita e, sperando contro ogni speranza, grida la sua accorata e fiduciosa preghiera: Se vuoi, puoi purificarmi! La preghiera del lebbroso è molto precisa, è costituita di tre verbi, e vale la pena ascoltarli, a uno a uno con attenzione.

Purificarmi: egli non chiede semplicemente la guarigione del corpo, ma chiede la purificazione. Ciò di cui ha maggiormente bisogno è essere riammesso nella comunità degli uomini, di ritrovare dignità agli occhi degli altri, di tornare ad essere prezioso… di avvertire l’attenzione e la vicinanza di qualcuno e poter esprimere il suo amore agli altri. Di più. Desidera avvertire su di sé lo sguardo benevolo, amante e salvifico di Dio stesso. Ha sperimentato che non può vivere senza Dio e senza la fraternità.

Se vuoi: la sua è una richiesta umile, senza pretese. Non ha più nulla
da perdere, perché è ormai privo di tutto. Dall’abisso della sua nullità supplica un dono e lo attende come un gesto gratuito, non dovuto. Sembra quasi che riaffiorino sulle sue labbra, con nuova consapevolezza, le parole del 129 salmo, che certamente aveva cantato molte volte:

Dal profondo a te grido, o Signore;
Signore, ascolta la mia voce.
Siano i tuoi orecchi attenti
alla voce della mia supplica.
Se consideri le colpe, Signore,
Signore, chi ti può resistere?
Ma con te è il perdono:
così avremo il tuo timore.
Io spero, Signore.
Spera l’anima mia,
attendo la sua parola. (cf. sal 129/130)

Ma il verbo più importante, quello che regge tutta la supplica e la
rende vera ed efficace è quello centrale. Puoi: è una limpida affermazione di fede! Tu puoi. Un verbo semplice e potente. Un po’ come se avesse detto: “Nessuno può liberarmi, nessuno può guarirmi, nessuno può purificarmi, ma TU SÌ, TU PUOI!” …perché “nulla è impossibile a Dio!”

In un’epoca come la nostra, nella quale uno degli inganni maggiori è
far credere all’uomo di essere il salvatore di se stesso, di poter determinare ogni cosa, di sostituirsi a Dio (provocando, invece, devastanti situazioni di disagio e di angoscia) è quasi rivoluzionario sentire il lebbroso gridare a Gesù: Tu, puoi!

Oggi, l’uomo, ancora una volta vittima della stessa presunzione di Adamo, sembra dire all’uomo, in molte e ingannevoli forme: “tu puoi” …e, così facendo, lo condanna a rimanere piagato, morente e isolato ai bordi della vita. Il lebbroso, invece, reso umile e sapiente dalla sua devastante condizione, grida a Gesù e non a se stesso: “Tu, puoi!” E subito Gesù, mosso a compassione, interviene. Anzitutto, lo libera dall’isolamento, dalla solitudine: “tese la mano, lo toccò e gli disse”. Gesù compie un gesto e gli rivolge una parola: quell’uomo, all’improvviso, torna ad esistere per qualcuno, che si è accorto di lui; è diventato prezioso agli occhi di un altro, che lo accosta con dolcezza; ritrova la dignità, nel sentirsi
rivolgere una parola di benevolenza e non di disprezzo.

E a questo primo fondamentale dono fa seguito anche la guarigione del corpo, condizione essenziale e verificabile per essere riammesso alla vita sociale e religiosa. L’evangelista Marco, nella sua sobrietà, non manca di sottolineare la posizione del lebbroso, mentre si rivolge a Gesù: lo supplicava in ginocchio.

Nella tradizione cattolica latina, imparare a mettersi in ginocchio ha assunto un ruolo pedagogico decisivo per la vita di fede. Ed è sciocco banalizzarlo o relegarlo ad atteggiamento puramente esteriore o formale. Chi per pregare si mette in ginocchio, quasi istintivamente apprende dalla posizione del suo corpo che Dio è Dio, che solo Lui è santo, che Lui è il Signore, che Lui è il Maestro, la Verità: l’unico da ascoltare, l’unico da adorare.

Stare in ginocchio libera dal ripiegarsi su di sé e orienta sguardo, mente e cuore al Signore. Crea la premessa per un’autentica purificazione: passare dalla presunzione di Adamo alla bellezza dell’essere figli. Dalle labbra di chi sta in ginocchio è più facile che sgorghi la stessa affermazione di fede che ha salvato il lebbroso: “Tu, puoi!”

*missionario in Terra Santa, già cerimoniere pontificio

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