Venerdì 24 Ottobre 2025

Giubileo degli influencer, la verità vale più dei like

L’apostolato on line è possibile anche se il cristianesimo è incarnato o non è. Tra ego e vanità, leggi dell’algoritmo e relativismo strisciante, le ombre sono forse più delle luci

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Si conclude oggi il primo Giubileo dei missionari digitali e influencer, aperto ieri con un intervento del cardinale Segretario di Stato Pietro Parolin e dell’arcivescovo Rino Fisichella, pro-prefetto del Dicastero per l’Evangelizzazione e responsabile dell’organizzazione dell’Anno Santo.

Proprio monsignor Fisichella ha ricordato che «il mondo non ascolta gli influencer in quanto tali, ma li ascolta quando sono testimoni».

Una differenza essenziale. Perché tra influencer e testimone c’è un mare di differenza, e questo abisso racconta dei rischi che questa nuova frontiera dell’evangelizzazione porta con sé.

Non nascondiamo che alcuni preti e suore influencer, tra pose ammiccanti e show a favor di telecamera, assomigliano di più a prodotti per l’algoritmo che a evangelizzatori che predicano bene e razzolano altrettanto.

Siamo tutti pronti a cadere nella trappola di Narciso, ma se c’è un ambiente dove questo viene amplificato sono proprio le bolle social, dove tra haters e tifosi si fa presto a cadere nella trappola dell’ego che si gonfia e sgonfia a dismisura.

Il compito dell’algoritmo, vero dio del mondo online, non è quello di servire la verità, ma di intrappolare dentro al suo social, rubare il tempo, polarizzare, emozionare, incastrare e dividere. Non proprio un lavoro da angelo del bene.

Allora l’influencer, per quanto ben disposto, si trova dentro a dinamiche che non seguono tanto quella “brezza leggera” in cui Dio ama farsi sentire, quanto quelle dei like, dei follower, dell’entertainment. Ed ecco che il missionario digitale finisce per accomodare il messaggio al mezzo, dando ancora una volta ragione all’avvertimento di Marshall McLuhan.

Vale anche per i tanti laici che si sono impegnati nella missione. Con l’aggravante che, tra un video YouTube e un reel su TikTok, si può finire a raccontare la fede secondo noi e non quella cattolica romana. Spesso inseguendo improbabili esclusive o retroscena, trasformando la Chiesa e la fede in un continuo bar sport, magari cercando lo scandalo o il prodigio anche dove non c’è nulla.

I social sono il regno del “secondo me”, dove uno vale uno, dimenticando che se parliamo di teologia cattolica e di dogmi, l’autorità ha un valore gigantesco. E no, uno non vale uno.

Per tacere poi delle cose personali sbattute online, come se tutto fosse un Grande Fratello sempre in diretta, con buona pace del nascondimento tanto caro alla famiglia di Nazareth e ai piccoli, gli “anawim” protagonisti della Sacra Scrittura.

Un altro rischio è quello di esaurire il proprio impegno di evangelizzazione nella bolla social, che assorbe sicuramente molto tempo, dimenticando quella parola che si può portare nella vita reale. Vale per i preti influencer, che sicuramente hanno molti luoghi fisici in cui farsi vedere e sentire lì dove il Signore li ha mandati, ma anche per i laici, che comunque hanno in famiglia, nel vicino di casa, sul luogo di lavoro e per strada, tante possibilità per essere testimoni.

Dopo questa litania di rischi, rendiamo anche conto di questa possibilità nuova per essere testimoni di Cristo. Il testimone, non il testimonial, deve avere la preoccupazione costante, presente e profonda, di «sparire perché rimanga Cristo», come ha indicato papa Leone XIV dando l’abbrivio al suo pontificato.

Non dimentichiamo che la sbornia del web sta producendo una sempre più diffusa incapacità di leggere e ascoltare veramente. Cose che si fanno dedicando il giusto tempo, il necessario silenzio e la giusta compagnia.

Che sia Giubileo anche per i missionari digitali, ma senza dimenticare che il cristianesimo o è incarnato o non è.

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