60 anni fa esatti approdava in libreria uno dei maggiori capolavori letterari di tutti i tempi: Il Signore degli Anelli. Correva il 1954 (solo la terza e ultima parte di quest’opera, innaturalmente divisa in tre tomi per ragioni editoriali, uscì nel 1955) e l’Occidente si trovava al centro del più cupo secolo della sua storia, squassato dai totalitarismi e da violenza di scala mai vista, piegato, irretito, snaturato dal trionfo delle ideologie più terribili e dei materialismi più nefasti. Il “secolo lungo” nato alla fine del Settecento con il disastro della Rivoluzione Francese culminava nel Novecento dell’oscurantismo più disperato.
In questa torrida temperie, Il Signore degli Anelli tornò a proporre la speranza che si riaccende pur nel mezzo della tenebra più nera; l’ideale di una vita spesa oltre le meschinità e i piccoli cabotaggi; il senso dell’amicizia profonda e del rispetto cavalleresco; il darsi oltre ogni meramente umana aspettativa; e il sublime confronto tra quelli che sant’Ignazio di Loyola, negli Esercizi spirituali, chiamò i “due stendardi” di Dio e del demonio schierati l’uno contro l’altro nella battaglia ultima –che non è l’ultimo scontro ma lo scontro ultimativo.
Eppure Il Signore degli Anelli non è affatto un semplice, e manicheo, affresco della lotta tra il Bene e il Male. È infatti anzitutto la narrazione di come, imprevedibile e sorprendente, la carità dipani le proprie vie lungo la storia (e così – specularmente – faccia il male), servitrice e annunciatrice di una Provvidenza sempre e costantemente all’opera, oltre le scelte dei singoli ma mai contro le loro libertà. Così sono poi proprio i singoli, assieme e uno per uno, che, se lo vogliono e se lo scelgono, ne divengono strumenti e araldi, assumendo coscientemente la propria vocazione di vita e compiendo il proprio supremo destino di bene.
Il genere letterario de Il Signore degli Anelli è quello della fiaba e del mito perché nella fiaba e nel mito si sprigionano, con potenza infinita, il senso dell’esemplarità e il significato del simbolo; la coscienza di far parte di uno scenario sempre più grande di sé e l’idea che nella trama vi sia sempre all’opera ben più di ciò che cade sotto i meri sensi umani; il fascino dell’imitazione e il gusto della chiamata finale cui rispondere ‒o cui (Dio non voglia) volgere le spalle. Una delle frasi più belle e forse celebri del romanzo esplicita alla perfezione questo spirito unico e sublime:
«Altri mali potranno sopraggiungere, perché Sauron stesso non è che un servo o un emissario. Ma non tocca a noi dominare tutte le maree del mondo; il nostro compito è di fare il possibile per la salvezza degli anni nei quali viviamo, sradicando il male dai campi che conosciamo, al fine di lasciare a coloro che verranno dopo terra sana e pulita da coltivare. Ma il tempo che avranno non dipende da noi» (Parte III, Il Ritorno del Re, Libro V, Cap. IX, L'ultima discussione).
Da sei decenni Il Signore degli Anelli combatte così la Buona Battaglia dei tempi ultimi, arruolando l’uno dopo l’altro, schiere di nuovi lettori-eroi. In 60 anni Il Signore degli Anelli ha proposto la Buona Battaglia a milioni e milioni di lettori, giovani e meno giovani, tradotto in decine di lingue; in 60 anni Il Signore degli Anelli è stato molto più che letto da una schiera immensa di fan: è stato vissuto, “sudato”, fatto proprio. Quando riesce a compiere un’impresa così, un prodotto semplicemente letterario porta già il blasone del capolavoro.
De Il Signore degli Anelli l’editore Bompiani propone ora, appositamente per il 60° anniversario, una nuova bella edizione, maneggevolissima per il lettore alle prese altrimenti con un librone di 1300 e passa pagine che a ogni lettura rischia costantemente di squinternarsi… Un’occasione in più per ricordarsi un’altra grande verità. L’autore de Il Signore degli Anelli, J.R.R. Tolkien (1892-1973), filologo eminente e scrittore sublime, era cattolico. Profondamente, intimamente, smaccatamente cattolico. E non un cattolico da salotto o da statistica sociologica, non un cattolico per caso o per default. Ma un cattolico per scelta e per convinzione, convertito in giovane età (assieme al fratello) da una madre, vedova, la quale, abbandonando il protestantesimo e scegliendo il cattolicesimo per sé e per i propri bimbi, andò incontro a privazioni e durezze per l’astio che le riservarono i genitori rimasti protestanti e diventati livorosi (e così pure i genitori del suo defunto marito), finché non le furono negati persino quei sostenti materiali mancando i quali morì di stenti.
Sì, Tolkien è cattolico, un grande cattolico. Sì: uno degli scrittori più amati e celebrati del Novecento, e forse di sempre; uno degli autori che più sono stati tradotti nel mondo, e più nel mondo hanno venduto, e più nel mondo hanno fatto guadagnare editori, registi e venditori di gadget assortiti; uno dei nomi più alla moda e citati, più noti e imitati, più popolari e sfruttati, è cattolico. Dovremmo ricordarlo sempre: a noi stessi, a chi non lo ricorda tanto volentieri, a chi lo ha dimenticato, a chi non lo sa. La popolarità persino mondana e l’eccellenza letteraria sono un prodotto raffinatamente cattolico. Non vergognamocene. Tolkien – scrivendo in data 6-8 marzo 1941 al figlio Michael Tolkien (1920-1984), che poi diveneterò sacerdote cattolico – non se ve vergognava affatto:
«Al di là di questa […] vita oscura […], io ti propongo l’unica grande cosa da amare sulla terra: il Santissimo Sacramento. […] Qui tu troverai avventura, gloria, onore, fedeltà e la vera strada per tutto il tuo amore su questa terra, e più di questo: la morte. Per il divino paradosso che solo il presagio della morte, che fa terminare la vita e pretende da tutti la resa, può conservare e donare realtà ed eterna durata alle relazioni su questa terra che tu cerchi (amore, fedeltà, gioia), e che ogni uomo nel suo cuore desidera» (J.R.R. Tolkien, La realtà in trasparenza. Lettere 1914-1973, Bompiani, Milano 2001, p. 63)
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