Ad Aldo Cazzullo, che lo ha intervistato sul Corriere della Sera, l’arcivescovo di Milano Angelo Scola, pacato ma fermo contestatore della “linea Kasper” al Sinodo straordinario sulla famiglia di ottobre, ribadisce con chiarezza che il divieto della Comunione ai divorziati “risposati” non è solo un punto (o un puntiglio) dottrinale, ma una questione elementare di “grammatica della fede” e di logica delle cose. Quella su cui appunto s’innesta, come valore aggiunto di profumo divino, la dottrina.
«Ne ho discusso intensamente», dice mons. Scola in riferimento al recente Sinodo, «in particolare con i cardinali Marx, Danneels, Schönborn che erano nel mio “circolo minore”, ma non riesco a vedere le ragioni adeguate di una posizione che da una parte afferma l’indissolubilità del matrimonio come fuori discussione, ma dall’altra sembra negarla nei fatti, quasi operando una separazione tra dottrina, pastorale e disciplina. Questo modo di sostenere l’indissolubilità la riduce ad una sorta di idea platonica, che sta nell’empireo e non entra nel concreto della vita. E pone un grave problema educativo: come facciamo a dire a dei giovani che si sposano oggi, per i quali il “per sempre” è già molto difficile, che il matrimonio è indissolubile, se sanno che comunque ci sarà sempre una via d’uscita? È una questione poco sollevata, e la cosa mi stupisce molto».
Insomma, non è possibile chiedere alla Chiesa di smettere di fare la Chiesa, e non è quindi immaginabile che essa separi dottrina, pastorale e disciplina. E mons. Scola stigmatizza apertamente tutti coloro che magari a parole ribadiscono la dottrina tradizionale sul matrimonio, ma poi vorrebbero annacquarla nei fatti. Non si può fare, non va fatto e non si farà.
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