Da un’idea di don Samuele Pinna ha preso vita “Dietro le quinte”, una rubrica senza periodicità che vuole incontrare quei personaggi importanti che lavorano per il bene e non sempre appaiono in prima fila, ma appunto sono spesso “dietro le quinte”. Oggi don Pinna incontra monsignor Inos Biffi, da ieri arguto novantenne a cui volentieri facciamo gli auguri di buon compleanno, ringraziandolo anche per il suo prezioso lavoro teologico
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Non troppo tempo fa ho sentito al telefono Inos Biffi, sacerdote ambrosiano e stimato teologo, oggi novantenne, il quale mi ha confessato: «Sono vecchio, ormai, sono vecchio!». Mi figuro quando andavo a trovarlo in episcopio, dove abita in quanto canonico del Duomo: ogni volta che entravo nell’appartamento, mi accoglieva sulla porta per condurmi nel suo studio, e di sottecchi osservavo tutt’intorno pigne di libri sormontati da altri volumi messi alla bell’e meglio. Era difficile trovare una sedia libera che non fosse già stata presa in uso come appoggio per la carta stampata e rilegata in volume. Di solito, ne veniva sgomberata una elegante per dare agio all’ospite atteso, mentre il proprietario dell’alloggio sovraffollato di scartafacci si sedeva su una poltroncina di fronte e dava avvio al dialogo, sovente vere e proprie lezioni da cui attingere sapere. Non c’è da stupirsi se è stato considerato un ricercatore serio, soprattutto nell’ambito del Medioevo, capace di grandi sintesi e di proseguire piste di indagini aperte da grandi studiosi.
Riprendo tra le mani una mia intervista in cui gli chiedevo una definizione di “teologia”: «Nella sua più elementare accezione – mi veniva spiegato –, è il discorso riguardante Dio; il logos relativo a lui. Ma se noi lo limitassimo, più precisamente, a discorso dell’uomo su Dio, imboccheremmo fatalmente una via deviante. Occorre partire dal principio, e dal principio concreto, che è l’iniziativa di Dio: la Parola di Dio sull’uomo, a lui rivolta mentre lo istituisce. Tutto questo è la creatività originaria, che pone radicalmente, ontologicamente, l’uomo nell’atteggiamento dell’accoglienza e dell’ascolto, nella disparità rispetto a Dio, nell’umiltà per cui egli (l’uomo) conosce riconoscendo il “già” avvenuto e indipendente. Questo non può infastidire se non chi concepisca (ed è concezione diffusa) Dio in conflittualità con l’uomo; la creazione come un bisogno recuperante invece che un amore liberante proprio per la sua gratuità».
Il rapporto tra Creatore e creatura può essere riletto alla luce della “svolta antropologica”, definizione tanto in voga qualche decennio addietro: «La “svolta antropologica” – mi viene precisato, non senza polemica – non è anzitutto quella che possa compiere l’uomo, quella che si dice contrassegni la nostra cultura, d’altronde, se non con intenzione, con risultati spesso ambigui, anzi equivoci. L’originale svolta antropologica è quella decisa da Dio nel suo atto creativo che ha avuto particolarmente come termine l’uomo. È Dio che intende narrarsi, che diventa logos, Parola per noi; che diventa secretum, o “mistero” proprio mentre crea l’uomo, mentre accede all’uomo che si apre a lui, perché creato da lui. Qui il linguaggio diventa sottile, impacciato, e la ragione ultima è che dobbiamo dire che l’uomo è termine dell’iniziativa di Dio, del suo progetto, mentre in realtà l’uomo in sé non esiste ancora, ed esiste per questo stesso progetto. E ancora dobbiamo dire che Dio si rivela, ma noi non lo esauriamo in questa sua rivelazione, e partecipandolo non lo attentiamo. È mistero mentre si comunica e si apre. In ogni modo c’è innanzi tutto l’ascolto di Dio, che è prima della nostra parola su Dio. E notiamo che questo vale anche per l’ambito della filosofia. Un buon filosofo prima ascolta le voci dell’essere (a cominciare da sé) e poi le dice. La filosofia a questo livello è riconoscenza di Dio e confessione di Lui; è un accorgersi di Lui».
La lama del ragionamento è sempre stata affilata nell’apprezzato docente milanese, così come quella dell’ironia, non di rado pungente. Negli anni Cinquanta, Giovanni Colombo non lo volle tra i professori del Seminario (insegnerà poi per anni alla Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale), perché per i giovani aspiranti al sacerdozio – ricorda lo stesso Monsignore – «bastavano dei buoni tagliacarte; non occorrevano rasoi». Fu mandato per motivi di salute in una parrocchia nel varesotto, dove il ministero non lo assorbisse totalmente, ma che fosse tale da permettergli di proseguire nella ricerca teologica: «Rimasi per diverse stagioni: ne ebbe beneficio la salute (e questo si poteva prevedere), ma se ne avvantaggiarono largamente e in modo inatteso anche gli studi. Forse Giovanni Colombo non si aspettava che quel soggiorno durasse tanto, e probabilmente era in attesa che manifestassi qualche disagio e insofferenza, e chiedessi un trasferimento: solo che, se da parte sua era certamente pronto almeno a consolarmi, io mi permettevo di non essere per nulla rattristato. Anzi, ero piuttosto divertito, avvertendo sempre più col trascorrere degli anni che non mi sarebbe potuta capitare una condizione più fortunata e più propizia per soddisfare, senza impegni di insegnamento e senza i disagi e i condizionamenti della vita comune, la mia passione per la teologia e per lo studio in genere. Mi sembrava che qualcuno stesse scrivendo diritto sulle righe storte».
Da quel raddrizzamento dal sapore soprannaturale, si è potuta realizzare una lunga carriera accademica di chi ha svolto la “professione” del teologo, che «è uno che ascolta, che confida». M’informo su cosa sia fare teologia: «è rispondere; o corrispondere a Dio che si è fatto Parola. È credere come accoglienza e come docilità: è essere insegnati. Se questa docilità manca, se cioè manca la fede, avviene la costituzione di una creaturalità indipendente e assoluta, perciò contraddittoria, illusa e obiettivamente insolente. Il teologo è un uomo che gode di essere creatura, nella quale la Parola di Dio sale e fa parlare, e la Parola diventa lode, intelligenza, consapevolezza, in una dipendenza che non genera insofferenza. Va in questa linea di confessio, di ammirazione, la teologia di Anselmo, di Bernardo, di Bonaventura e, in sommo grado, quella di Tommaso d’Aquino. Quando invece nella teologia si insinua e diviene operante quasi un risentimento per il fatto che Dio è Dio; per il fatto che egli ha liberamente deciso il mistero, e allo stupore che tiene dietro all’intelligibilità succede la critica che chiama a giudizio Dio stesso, la teologia è sulla strada della morte. Agostino ha scritto parole luminose al riguardo: Per fidem copulamur, per intellectum vivificamur; prius haereamus per fidem, ut sit quod vivificetur per intellectum: attraverso la fede avviene la comunione; di conseguenza questa comunione diventa vita luminosa nell’intelligenza; prima dobbiamo aderire con la fede perché ci sia la condizione della vita nell’intelligenza».
Quale, allora, il contenuto vero e proprio della teologia? «Il “contenuto” è Gesù Cristo, Figlio di Dio, risorto da morte e un’umanità configurata alla sua morte e alla sua risurrezione. L’elezione divina, il progetto, o il mistero, è l’umanità di Dio e l’umanità in Dio: Gesù Cristo, la Chiesa e un universo in Cristo per la Chiesa e con la Chiesa. Questo è il progetto deliberato da Dio, in unità e originarietà. Dio affida creatorialmente (da Creatore) il Figlio crocifisso e risorto, e, volendo un’umanità, decide questa: l’umanità del Figlio modello e fondamento e quindi possibilità di ogni forma umana concreta. Concreta: vuol dire di fatto, nel senso che certamente è pensabile un altro tipo di umanità, ma pensabile non vuol dire reale, perché, di fatto, l’umanità scelta e destinata è quella in Gesù Cristo».
Nonostante si misconosca tale dato nel contesto odierno, la sacra dottrina è una scienza che si può apprendere solo mediante la fatica dell’impegno intellettuale. Nondimeno, da più parti si lamenta la mancanza di libertà di cui dovrebbe godere il teologo, quasi fosse un libero pensatore: «Sembra – ed è un commento arguto – che ciò di cui si sente la mancanza oggi non è di una teologia libera ma di teologia, la quale non è né un carisma o gratia gratis data, né un ministero, che si riceva con un’ordinazione o istituzione, e nemmeno originariamente con una licentia o una missione. È invece il frutto dell’ingegno e dello studio prolungato. Sappiamo che si possono “sentire le cose di Dio”, averne l’esperienza: dono questo che può essere dato benissimo a chi non è teologo di “professione”. Lo rileva anche san Tommaso, quando parla della conoscenza teologica per inclinazione o per una certa connaturalità. Ma nel senso qui inteso la teologia è “il giudizio che si ottiene attraverso lo studio e la ricerca” [cfr. S. Th., I, 1, 6, 3m], come dice lo stesso Dottore Angelico quando si chiede se la sacra dottrina sia sapienza. Ora lo studio non è scontato a nessuno: e non raramente l’appello alla teologia come esperienza e come sapienza si accompagna o a un’incapacità o a una non volontà per il lavoro teologico assiduo e abitualmente non gratificante, che domanda una ascesi rigorosa, severa e diuturna. Senza questa disciplina dell’intelletto, applicata al campo storico o a quello speculativo, non si dà teologia, e chi la vuole viva, concreta, di solito è chi crede che la si possa acquistare a buon prezzo».
Di nuovo, interrogo il mio interlocutore sulle caratteristiche del teologo: «Un teologo deve essere serio, e uno degli indici della serietà è la pazienza, il senso delle proporzioni, la “modestia” o la “misura”, l’attesa, la diffidenza nei confronti della facile pubblicità, la non facilità a porsi nello stato di vittima o di genio incompreso. A chi vi si dedichi, senza ulteriori mire, la teologia ha di che soddisfare l’esistenza di uno studioso cristiano». In ogni disciplina che si voglia padroneggiare è necessario un tempo di apprendimento che pare assente in molte persone che si improvvisano magistri in sacra pagina: «Oggi forse troppo gratuitamente – sono confermato – ci si autoproclama teologi: oppure si perde vanamente il tempo a discutere della libertà del teologo invece di faticare a tempo pieno per diventarlo». Sicché, deve esserci un’attenzione alla Tradizione ecclesiale: «Alla genesi della teologia sta il mistero cristiano; essa si può quindi definire come intelletto della fede, e non è pensabile che in una determinata epoca la si possa completamente rifare. Nella diversità dei tempi essa viene alimentata da una tradizione ininterrotta di contenuti e anche di linguaggio, che non ammette discontinuità drastiche e rivoluzionarie, pena la perdita dell’identità. È lecito almeno nutrire qualche perplessità di fronte a un teologo che sia persuaso di proporre dottrine teologiche inusitate e singolari, non mai insegnate prima di lui. Non per questo, tuttavia, la teologia è destinata a una pura ripetizione. La storia stessa della teologia mostra quanto, senza spezzare la continuità, essa si sia variamente e anche profondamente rinnovata, ma non per aver in certo modo occultato o disatteso il mistero; al contrario, per averlo lasciato emergere con più forza e coerenza». Nella bella confusione in cui siamo finiti, mi viene da domandare quale possa essere la strada per un rinnovamento teologico: «La via è il cristocentrismo. Veramente, non si tratta affatto di una novità. La teologia cristiana ha sempre avuto – né potrebbe essere diversamente – al suo centro Gesù Cristo; è nata e si è sviluppata dal suo evento. E questo non sorprende, se, da un lato, la teologia mira a comprendere la Parola di Dio, e dall’altro, la pienezza di questa Parola è Gesù Cristo e il suo avvenimento».
Mi pare di vedere anche adesso il Monsignore che, all’ombra della Madonnina, mi saluta sull’uscio di casa con il suo consueto mesto sorriso, formalissimo nella gentilezza ma distaccato, lo sguardo basso e penetrante, come quando doveva valutare la bontà o meno di una tesi teologica.
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