Come molti giovani borghesi annoiati dell'Occidente, figli di papà magari danarosi e sempre senza pensieri veri, Jane Fonda, la famosa attrice statunitense, sognava e predicava la rivoluzione mentre migliaia di suoi compatrioti perdevano la vita in Vietnam per fermare, come potevano ma sempre con il sacrificio di sé, la minaccia più grande di quel tempo, il comunismo.
Non si tratta di accettare acriticamente ogni e qualsiasi affermazione che riguardi quella guerra, e non si tratta nemmeno di fare l'apologia della guerra in quanto tale. Ma in quel momento storico la posta in gioco era quella, e passava tutta dal fronte vietnamita: lo scontro tra le possibilità reali di vivere appieno la vita come Dio comanda date da una libertà pur concepita in modo lacunoso e magari usata male come quella che vigeva allora (e vige ancora) in Occidente e il contrario stesso della libertà, dunque della libertà religiosa, della libertas Ecclesiae, della dignità dell'essere umano difesa sempre e comunque dalla dottrina cattolica e dal Magistero.
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Terze soluzioni concretamente non ce n’erano, e chiunque abbia preteso di chiamarsi fuori, vagheggiando ipotetiche alternative, ha sempre fatto solo della pura teoria, a conti fatti finendo tra l’altro spessissimo per portare acqua alla causa del comunismo.
Quando Jane Fonda, mentre i suoi coetanei morivano quotidianamente come mosche anche per dare a lei la libertà di dirne peste e corna, passò dal bla bla all’azione dimostrativa, s’infilò uno dei caschetti indossati dalle truppe nordvietnamite, convocò stampa e tivù, e si fece ritrarre sorridente assieme al nemico, ai nemici del suo Paese, ai nemici di quella sua stessa idea di libertà anarchica e rivoluzionaria che l’attrice incarnava sullo schermo, vestendo costantemente i panni della ribelle o dell’allora galoppante rivoluzione sessuale. Ovvero: ad Hanoi un tipo come lei, se non fosse stata perché era una “utile idiota” (come diceva Lenin) sfruttabile a fini propagandistici, sarebbe finita subito in qualche campo di lavoro forzato.
Le sue foto fecero allora il giro del mondo, e non hanno smesso di girare nemmeno oggi. Sono diventate subito pop, cioè poster, t-shirt, adesivi, suscitando il plauso di una generazione intera (e forse più) di fan filocomunisti ma contestualmente anche lo sdegno di mille tra ragazzi e loro genitori che si sono sentiti pugnalai alle spalle. Quelle foto famose e famigerate sono tornate in auge anche quando Barack Obama ha deciso di correre per la Casa Bianca e la bianca diva ha deciso di sostenere la Sinistra che è in lui semplicemente mostrandosi, rispetto ai vecchi tempi dei vietcong, un po’ più attempata quanto inseparabile dai legging di ordinanza per una musa della danza aerobica e delle diete dimagranti come lei. Assieme alle foto di Jane Fonda in Vietnam, durante le campagne elettorali obamiane sono del resto tornate a circolare anche quelle in cui l’attrice è raffigurata a sit-in di protesta e a raduni pacifisti assieme all’allora freak cappellone ma odierno Segretario di Stato americano in ambito scuro, John F. Kerry.
Adesso Jane Fonda ha però cambiato idea. «Quella foto mi farà male fino alla morte». In realtà sono più di una le foto che la ritraggono con i comunisti, ma pazienza. Oggi 77enne, la Fonda chiede insomma scusa per i selfie con i vietcong scattati nel 1972. «Quando è possibile cerco di sedermi con veterani e parlare con loro», ha detto l’attrice in Maryland durante l’ennesima contestazione da parte di veterani della guerra al comunismo. «Capisco la loro rabbia, mi rende triste», dice l’attrice. «Mi fa male e lo farà fino alla tomba. Ho fatto un enorme, enorme errore». Ne prendiamo atto, meglio tardi che mai.
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