Da un’idea di don Samuele Pinna ha preso vita “Dietro le quinte”, una rubrica senza periodicità che vuole incontrare quei personaggi importanti che lavorano per il bene e non sempre appaiono in prima fila, ma appunto sono spesso “dietro le quinte”. Oggi l’incontro con suor Cristiana Dobner, carmelitana scalza.
Tra i monti del lecchese, in un piccolo borgo arroccato fra verdi paesaggi, è presente una nutrita comunità di carmelitane scalze. M’incontro con una di loro, assai conosciuta anche al di fuori delle mura del monastero a ragione delle sue alte opere teologiche. Suor Cristiana Dobner ha, infatti, un curriculum accademico lungo una settimana, così come non è da meno l’elenco dei suoi libri e delle sue collaborazioni con testate giornalistiche prestigiose. Voglio inizialmente sapere di lei, triestina d’origine e da anni rinchiusa tra quattro mura nella ridente Concenedo di Barzio. Ha ancora senso – mi chiedo e le chiedo – scegliere la clausura nei nostri tempi? Come spiegare questa vocazione? «La domanda», risponde divertita, «andrebbe rivolta allo Spirito Santo! Non siamo noi a scegliere, è l’invito che riceviamo a suggerircelo. Non siamo i primi, siamo sempre i secondi: Egli parla e invita, noi siamo liberi di ascoltare e accettare. Al giorno d’oggi? Come al giorno di ieri. Ogni secolo vive novità e difficoltà, interrogativi e mancanze di risposte». La monaca intende dire una sola cosa: «l’Altissimo esiste, lo Spirito continua ad aleggiare sulle acque in una creazione continua. Gesù Cristo ci ha annunciato la Parola: viviamo ascoltandola. La Parola donata è salvifica, rivolta a tutti e sempre».
Voglio rilanciare con un altro interrogativo più personale e, mentre ci penso, mi guardo attorno. Sono seduto in fondo a un piccolo corridoio che si affaccia su una grata di legno. Non è più come un tempo in cui non si riuscivano a riconoscere i lineamenti di chi vi stava dietro. Oggi posso guardare dritto negli occhi – così luminosi e vivaci – di suor Cristiana per venire a sapere cosa l’abbia colpita della spiritualità carmelitana. La mia curiosità è, de facto, subito soddisfatta: «Il versetto nella Regola carmelitana che recita: “die ac nocte in Lege Domini meditantes”. Dimorare nella Parola che suscita in noi il desiderio di lasciarsi centrare su Gesù Cristo nella comunione amorosa. Non quale possesso o sguardo rivolto a se stessi in compiacenza ma in dedizione consegnata che raggiunge tutti e tutto nell’abbraccio orante».
Esperta del pensiero e della vita di santa Teresa d’Avila, di san Giovanni della Croce, di Edith Stein (alias santa Teresa Benedetta della Croce, patrona d’Europa) et alii, vorrei comprendere da lei cosa hanno lasciato in eredità questi autori santi: «Ognuno ha accolto il progetto di Dio sulla loro esistenza, hanno percepito la loro missione e, fidando in Lui, l’hanno compiuta, consegnandola all’Amore trinitario e alla storia dell’umanità. Teresa con la sua esperienza mistica riversata nei suoi scritti che conducono a conoscere il Signore e a lasciarsi condurre nell’intrico e nelle difficoltà personali della storia nello scorrere delle dimore del Castello interiore, fino a giungere a conoscere il Signore faccia a faccia. Per la donna ha combattuto una battaglia incredibile, dimostrando come l’orazione era una dimensione della vita orante che non si doveva limitare solo alla ripetizione di formule orali. Giovanni della Croce ha optato per l’immagine della Salita del Monte Carmelo, indicando come procedere non perché attratto dal nulla, dalla nada, ma perché proprio “nella nada, el todo”, il tutto viene donato. Il “todo” che non è una cosa ma è “il Todo”, il Chi, il Dio vivente. Con la sua opera “Llama de Amor viva” ha consegnato a tutti una mappa che conduce alla festa dello Spirito. Edith Stein con la sua vita a zig-zag, così l’ha definita ella stessa, intrisa della ricerca della verità attraverso un cammino filosofico quanto mai impegnativo, è approdata alla Verità, al mistero di Dio. Ha indicato strade teologiche approfondite e, soprattutto, le ha incarnate e non lasciate in un’astrazione, non sfuggendo alla cattura delle SS ed entrando, con piena consapevolezza, nel “Anus mundi”, come un medico di Auschwitz aveva definito il lager. Vi ha portato con la sua morte quella Luce che vince le tenebre e le sue ceneri non sono spente ma sempre vive e pulsanti».
Non solo santi carmelitani. La religiosa davanti a me ha studiato a fondo anche gli scritti di Jacques Maritain e, di conseguenza, di san Tommaso d’Aquino a cui il filosofo francese si rifà. Le domando il motivo per cui sia importante conoscere questi pensatori: «A causa della luminosità della loro ricerca che ha lasciato una traccia indelebile su cui noi possiamo oggi continuare a pensare in raccordo con la cultura odierna. Proprio come fece Tommaso con la filosofia araba e greca. Lo sguardo simultaneo sulla Parola e sul nostro secolo, cogliendone le istanze, le proposte e sapendole valutare».
Afferro il senso della risposta, ma voglio capire se si ha ancora bisogno in un mondo occidentale materialista e individualista della spiritualità cristiana, perché tutto sembra dire il contrario: «L’Altissimo», sono confortato, «che ha fatto irruzione nella storia dell’umanità continua a seguirci con la Sua Parola, con Gesù Cristo e con la presenza dei “martiri”, dei testimoni che nella loro esistenza hanno incarnato l’invito. Così verrà trasformato il nostro esistere e troverà la sua autentica identità».
Riecheggia forse qui l’invito biblico di dare ragione della propria speranza, e critico il mancato desiderio in molti battezzati di approfondire la propria fede. Sospiro e faccio intendere – a chi, tra l’altro, se ne occupa nelle sue giornate – quanto sia importante la formazione: «È essenziale non solo importante. Tuttavia, non è ricerca astratta quanto piuttosto sguardo a testimonianze che attraggono e siano capaci di guidare ad approfondire il senso della vita e ad accogliere le sfide del nostro tempo, dando una ragione di adesione al Dio vivo».
Di nuovo mi viene ribadita la testimonianza quale assimilazione al disegno divino nella – e non tanto al di là della – storia. Non posso, quindi, tacere e reclamo un giudizio sul nostro tempo, ma anche un consiglio: quale speranza coltivare? «Un giudizio? Come in tutto lo scorrere dei secoli: luce e tenebre. Tutto acuito dalla simultaneità delle informazioni e dalla possibilità di evasione vacua. La speranza è quella cordicella che l’Altissimo lancia a ognuno: bisogna scoprirla, raccoglierla e mantenerla sempre tesa. Non avulsi dal nostro tempo attuale, dalle sue scoperte e ricerche ma facendole proprie nella luce della Parola che ha e avrà l’ultima mossa contro le tenebre. Papa Francesco è limpido nella Bolla di Indizione del Giubileo del 2025: “La speranza, insieme alla fede e alla carità, forma il trittico delle ‘virtù teologali’, che esprimono l’essenza della vita cristiana (cfr.1 Cor 13, 13; 1 Ts 1, 3). Nel loro dinamismo inscindibile, la speranza è quella che, per così dire, imprime l’orientamento, indica la direzione e la finalità dell’esistenza credente. Perciò l’apostolo Paolo invita a essere “lieti nella speranza, costanti nella tribolazione, perseveranti nella preghiera” (Rm 12,12). Sì, abbiamo bisogno di “abbondare nella speranza” (cfr. Rm 15,13)”».
Mi congedo con gioia per aver potuto discorrere con una personalità così ricca, chiara nei giudizi, capace di uno sguardo di misericordia sulla realtà che ci circonda. Non mi trattengo e, mentre saluto suor Cristiana Dobner – che ha un compito di guida d’anime –, le strappo un suggerimento per vivere il Vangelo nel quotidiano: «Parola e Pane di vita», mi sento rispondere, «accoglierLo nel ritmo del giorno, creando spazi e momenti di silenzio orante».
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