Terminato il tempo liturgico che celebra la Pasqua, festeggiamo una delle più grandi verità di fede della nostra esperienza cristiana: l’unità e la trinità delle Persone divine.
Questo è il cuore della nostra vita di grazia. Se l’uomo può giungere a partire dalla propria ragione e dalla contemplazione del creato a considerare l’esistenza di Dio e alle fonti della propria moralità, la Sua Trinità può essergli soltanto rivelata: «Il mistero della Santissima Trinità è il mistero centrale della fede e della vita cristiana. Soltanto Dio può darcene la conoscenza rivelandosi come Padre, Figlio e Spirito Santo» (CCC, 261). Questo è già un passo nell’esperienza di un amore singolare e gratuito, di cui il Signore ci fa dono. Egli ci ama creandoci; ci ama rivelandoSi; ci ama assumendo la nostra natura fino al limite estremo, la morte, e rispettandone la caratteristica principale, la libertà.
Nella seconda lettura san Paolo dice che lo Spirito Santo ci è donato per essere resi «figli adottivi, per mezzo del quale gridiamo: “Abbà! Padre!”» (Rm 8, 15). E l’adozione vuol dire gratuità completa: noi, che pensavamo che il nostro peccato ci definisse, che diventasse la nostra natura (e non lo era mai stato), che segnasse per sempre le nostre relazioni (sul monte in Galilea sono presenti gli Undici, non i Dodici), noi abbiamo ricevuto in dono un nome, il Suo.
E tutto questo accade nel dono dello Spirito Santo che è effuso da Cristo dalla Croce: è lì che si manifesta con pienezza l’amore trinitario. Noi ricordiamo il dono totale di Gesù e l’essere stati resi figli nella Trinità ogni volta che facciamo il segno della croce, nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo. «Perché, pronunziando con queste parole il nome dell’inscrutabile mistero divino, il nome del Dio vivente che è, facciamo nello stesso tempo, sulla nostra fronte, sulle spalle e sul cuore, il segno della Croce? Perché la Croce è l’ultima parola del mistero trinitario di Dio nella storia della salvezza del genere umano. Quando Cristo dice dello Spirito Santo: “prenderà del mio e ve l’annunzierà”, queste parole si riferiscono in modo particolare al sacrificio della Croce. Il Dio vivente è entrato definitivamente nella storia del creato, nella storia dell’uomo, proprio mediante questo sacrificio. L’uomo, guardando l’architettura del cosmo, si addentra nelle profondità dell’eterna Sapienza del Creatore. L’uomo, guardando la Croce, conosce l’amore che penetra questa Sapienza e tutta la sua opera. Conosce l’amore che è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo (cf. Rm 5, 5)» (S. Giovanni Paolo II, Omelia, 21 maggio 1989).
Il rivelarSi di Dio come Trinità manifesta anche lo scopo e il destino ultimo della vita dell’uomo. Noi siamo chiamati a un’eternità che non è una splendida immobilità, bensì è gioia d’amore, di relazione; è vivace continua freschezza. Per questo Gesù si è incarnato, ha sofferto, è morto ed è risorto: per renderci partecipi della vita divina. La festa della Santissima Trinità ci invita a ripensare la nostra esistenza in vista del nostro destino ultimo – il Paradiso –, a dare alle cose, alle relazioni, alle persone, ai progetti, un valore che sia orientato alla nostra vera natura, quella di figli destinati all’eternità.
E solo questo può essere il fondamento del valore di ogni persona: non la loro utilità sociale, non la loro sostenibilità economica, non la accettazione della loro sofferenza. Un destino eterno ci attende, e a quello dovremo rispondere. Perché segnandoci con la Croce ogni giorno accettiamo anche che un Altro sia la nostra misura: «E se siamo figli, siamo anche eredi: eredi di Dio, coeredi di Cristo, se davvero prendiamo parte alle sue sofferenze per partecipare anche alla sua gloria» (Rm 8, 16).
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