Si fa presto a dire diritti. Ma è molto più difficile fare diritto, quanto meno nel senso che dovrebbe essere giunto a noi fin dall’antica Roma. Risale al secondo secolo dopo Cristo la celebre definizione della giurisprudenza come ars boni et aequi (arte del buono e del giusto). Tuttavia, nella nostra epoca, è diventato difficile persino essere concordi sul concetto stesso del diritto. Ciò in quanto, fatalmente, l’aspirazione alla giustizia e all’equità si scontra con la retorica del politicamente corretto, che si è specializzata nel riconoscere “diritti civili” soltanto alle minoranze che rientrano nel cono di luce della sua propaganda, negando quelli di tutti gli altri, maggioranze comprese.
Poniamo il caso recente delle polemiche che hanno fatto seguito a una conferenza su aborto e diritti, tenutasi in una saletta della Camera dei Deputati, su iniziativa del Centro Studi “Machiavelli”. Un incontro culturale, di taglio addirittura filosofico, espressione di quella “società civile” che dovrebbe essere cara ai sinceri democratici. L’iniziativa non era diversa da quelle che in Parlamento si tengono ogni settimana, per iniziativa delle più disparate associazioni.
“L’aborto è un diritto sancito dalla legge” hanno immediatamente iniziato a strillare da sinistra, per poi dare addosso al deputato leghista che aveva prenotato la sala. Quest’ultimo è stato additato come “il nuovo Pillon”, cioè il nuovo campione dell’oscurantismo. Anche se, a quanto pare, l’interessato non sembra avere proprio la tempra del combattente, visto che si è affrettato a prendere le distanze da quello che i media gli hanno raccontato che si sarebbe detto nel convegno, al quale non aveva nemmeno presenziato.
Eppure, sarebbe bastato consultare la legge 194 con un minimo di competenza giuridica – cosa che manca a tantissimi parlamentari, anche rispetto alle loro stesse proposte di legge – per capire che nel nostro ordinamento l’aborto di Stato non è affatto un diritto. O almeno, non è quello che si definisce come un diritto soggettivo. Non lo è, perché non si tratta del “massimo grado di tutela di un interesse” con il quale si dovrebbe inequivocabilmente identificare il concetto in esame. Al contrario, nel nostro sistema, per accedere all’interruzione di gravidanza la donna deve trovarsi in una situazione di pericolo per la sua salute fisica o psichica che va riconosciuta da soggetti terzi competenti.
E comunque, deve rispondere a determinate condizioni. Non a caso, infatti, la legge 194 in questione, con squisita ipocrisia, porta come titolo “norme per la tutela sociale della maternità”, e non certo per la tutela del preteso diritto della donna a liberarsi del frutto del concepimento. Tutela “sociale”, addirittura, e non individuale. Eppure, per altri versi, è vero che l’aborto è da più di quarant’anni uno dei diritti più blindati che ci siano nel nostro Paese.
Ma si tratta di una situazione nata nella prassi, per opera della pressione politica, sociale e mediatica esercitata non per la tutela della “maternità”, bensì per quella delle “donne”. Con la singolare presunzione per cui ci sarebbe una sola parte politica intitolata a parlare a favore dell’intero genere femminile, mentre tutte le altre sarebbero nemiche delle donne in quanto tali. Va da sé, peraltro, che dalle sponde sinistre del politicamente corretto non ci si preoccupa mai di quello che le singole donne, quelle reali, pensano e vogliono veramente.
La stessa cosa avviene, da qualche anno in più, anche per il divorzio. Chiunque si azzardi a dire che nel nostro ordinamento nemmeno il divorzio è un diritto, rischia di subire un trattamento peggiore di quel malcapitato deputato che si era azzardato a prenotare la saletta a Montecitorio per il centro studi “Machiavelli”, senza sapere nulla di quello che si sarebbe detto. Tuttavia, chi conosce un minimo il diritto di famiglia – senza necessariamente essere un giurista di rango – e soprattutto chi ha conservato sufficiente onestà intellettuale, non può fare altro che riconoscere che giuridicamente le cose non stanno affatto così.
Certo, è normale che, al punto in cui siamo arrivati, di certe osservazioni si stupiscano anche gli addetti ai lavori. La giurisprudenza e la prassi hanno fatto sì che il divorzio sia diventato un altro dei diritti più blindati del nostro Paese. Chi scrive ricorda bene gli occhi spalancati degli studenti di giurisprudenza – per non parlare delle facce indignate dei colleghi avvocati – che lo guardavano durante alcuni convegni, nei quali si era permesso di mettere in discussione quanto sopra. Non per affermare un’idea contraria, ma solo per consentire a tutti di comprendere al meglio come funziona il nostro sistema.
Tant’è che il “diritto al divorzio” esiste solo nella prassi, ed è un’altra di quelle posizioni di principio che non ci si può azzardare a contraddire, neanche per pura speculazione giuridica, pena l’immediato salto alla giugulare da parte dei difensori dell’ortodossia politicamente corretta. Resta però vero che nel nostro ordinamento il divorzio è stato configurato non come un diritto soggettivo, bensì come un “rimedio”, rispetto a una situazione di crisi coniugale della quale dovrebbe essere accertata l’irreversibilità. Poi, la giurisprudenza ha fatto sì che il divorzio diventasse più tutelato di molti altri “veri” diritti soggettivi.
Questo non toglie, tuttavia, che nel nostro ordinamento il divorzio non era stato concepito in questo modo, e questo continua a creare a tutti i soggetti interessati al problema una serie di difficoltà sistematiche, sia nell’interpretazione della legge che nella sua esecuzione. Basta pensare a come, in Italia, separazione e divorzio sono due istituti separati, diversi nei presupposti, così come nella regolamentazione e nelle conseguenze. Tuttora, per attuarli, devono essere proposti due ricorsi distinti, che fino a poco tempo fa sfociavano in due procedimenti che, in caso di conflittualità tra le parti, potevano diventare concomitanti, costosissimi, interminabili e pure contraddittori negli esiti.
La recentissima riforma Cartabia ha tentato di semplificare le procedure legali del nostro diritto di famiglia. Ma si è ancora in presenza di un vero e proprio letto di Procuste, dove il diritto – quello vero – non riesce più a tenere dietro ai desideri individuali. La contraddizione di fondo è sempre la stessa: la nostra Costituzione prevederebbe (art. 29) il primato della famiglia e del matrimonio rispetto ai diritti individuali. Addirittura, il suddetto articolo stabilisce testualmente, al secondo comma, che per garantire l’unità familiare si potrebbe derogare anche alla uguaglianza morale e giuridica dei coniugi.
Le leggi successive non hanno però saputo evitare la tendenza giurisprudenziale per cui si è passati progressivamente dal favore per la famiglia a quello per il divorzio. Quest’ultimo è diventato sempre più semplice da ottenere e incondizionato, ma questo, oltre alle devastanti conseguenze sociali, ha comportato una serie di incongruenze giuridiche che sono ancora oggi lontane dall’essere superate. A farne le spese sono i figli. Soprattutto quelli più piccoli, l’interesse dei quali dovrebbe essere “preminente”, ma in realtà viene devastato da una prassi giuridica che invece conferisce la massima priorità ai desideri dei genitori.
L’ipocrisia di fondo che regge il sistema è tale che, fin dall’inizio del loro percorso verso il divorzio, le parti vengono convinte del fatto che il loro interesse individuale a rifarsi una vita venga prima di ogni altro valore, e che l’unica cosa che che conta sia di ottenere consulenze d’ufficio e provvedimenti giudiziari favorevoli. Con buona pace del diritto dei loro figli, che sarebbe invece costituzionalmente tutelato come prioritario, ad avere genitori il più possibile responsabili e concordi nei loro confronti. La fabbrica dei divorzi è un tritacarne dal quale è diventato quasi impossibile venire catturati. Si entra come coppie in crisi e se ne esce come individui separati. Senza alternative né uscite di sicurezza.
È il frutto di una propaganda maligna e martellante che dura ormai da più di cinquant’anni. Ed è impressionante assistere alle distorsioni di principio per cui le persone vengono autorizzate a pensare che la loro felicità e il loro interesse economico sia più importante rispetto a quello dei loro figli. D’altra parte, a ben vedere, questo scempio riguarda più la generazione degli anziani – i cosiddetti boomer, per capirci – che non i più giovani. Questi ultimi ormai hanno capito benissimo come funziona il sistema, e la necessità di starne alla larga.
Infatti, i giovani tendono a non sposarsi nemmeno, per evitare il più possibile le terribili conseguenze che – ormai lo sanno fin da ragazzini, essendo stati a loro volta figli e nipoti del divorzio di massa – discenderebbero dall’abbandono da parte del partner. Un termine anglosassone, quest’ultimo, che non a caso dovrebbe indicare più un socio in affari che non un compagno di vita e di amore. Lo stesso discorso vale per gli operatori del diritto: i più giovani, come dicevamo, guardano increduli chi richiama ai loro occhi le dinamiche di un sistema ormai degenerato, ma, nei fatti, i più strenui difensori dell’individualismo esasperato sono i giuristi più anziani e ideologizzati.
È ovvio che l’abbrivio sia dalla loro parte, perché sono tuttora loro a dare il la all’andazzo dei tribunali, così come a quello delle accademie, della politica e dell’opinione pubblica. Nonostante questo, esiste anche una generazione di avvocati, magistrati, consulenti e psicologi più giovani che si è resa conto dell’ipocrisia del sistema. Così come di quanto ormai suonano irreali gli slogan di chi, specie tra i politici, continua a tuonare in favore dei “diritti civili”, e ad additare come infame chi cerca di ristabilire un po’ di verità e buon senso.
Ci vorrà ancora del tempo perché, dopo decenni di sbornie ideologiche, si compia il passaggio generazionale che è anche e soprattutto un passaggio di poteri. Tuttavia, nonostante la distruzione globale che hanno subito nel nostro Occidente, i diritti naturali collegati all’idea stessa della famiglia e del matrimonio non potranno mai venire meno. Il paradigma dei “diritti civili”, inventati e propagandati dagli ideologi, dai media e dai militanti esagitati, non può evitare di fare i conti con la realtà. Essa è tuttora composta da adulti che aspirano alla famiglia e alla genitorialità, così come da bambini che non possono farne a meno.
Un minimo di onestà intellettuale, che nel settore non abbonda ma si rende sempre più ineludibile, rende impossibile che non ci si accorga delle loro esigenze. Il divorzio libero e incondizionato, la intercambiabilità dei ruoli genitoriali, e la stessa idea di una società post-matrimoniale dove ognuno vive solo per sé stesso e i propri desideri, mettendoli davanti persino a quelli della prole, non sono la realtà. Al contrario, quest’ultima è fatta di diritti naturali e fondamentali, tra i quali vi è anche quello – assai frainteso – per cui ogni persona ha diritto al rispetto della propria vita privata e familiare (art. 8 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo). La famiglia, il matrimonio, la genitorialità sono i veri e propri diritti. Non ciò che persegue la loro disgregazione.
(Fonte foto: Facebook/Imagoeconomica)
Riceverai direttamente a casa tua il Timone
Se desideri leggere Il Timone dal tuo PC, da tablet o da smartphone
© Copyright 2017 – I diritti delle immagini e dei testi sono riservati. È espressamente vietata la loro riproduzione con qualsiasi mezzo e l’adattamento totale o parziale.
Realizzazione siti web e Web Marketing: Netycom Srl