«Chiedo scusa per quello che ho detto a mio figlio. Gli ho detto solo tante fesserie. Non ho mai pensato che i femminicidi fossero una cosa normale. Erano frasi senza senso. […] Vi supplico, siate comprensivi», queste sono solo alcune delle frasi che Nicola Turretta, il padre di Filippo, accusato di aver ucciso Giulia Cecchettin lo scorso 11 novembre, ha riferito alla stampa dopo che è trapelata la loro prima conversazione in carcere. Quanto è emerso è stato già dato in pasto ai media e lo shit storm (letteralmente “tempesta di cacca”) sui social incalza da ore. Come mai in questi casi è importante partire da una collocazione spazio-temporale: è il 3 dicembre quando i genitori di Filippo lo incontrano per la prima volta dopo l’omicidio e la fuga in Germania.
«Hai fatto qualcosa, però non sei un mafioso, non sei uno che ammazza le persone. Hai avuto un momento di debolezza. Non sei un terrorista. Devi farti forza. Non sei l’unico. Ci sono stati parecchi altri. Però ti devi laureare…». Parole che sì, forse manifestano un certo senso di “giustificazionismo”, ma di certo un po’ di empatia anche per l’altra parte della storia non guasterebbe. Siamo sempre di fronte a un padre e un figlio, in un momento tragico. Così, mentre sul colloquio intercettato si è espresso l’Ordine dei giornalisti, nella figura del presidente Carlo Bartoli, affermando che in questa conversazione non c’era alcun elemento rilevante per le indagini e che fosse «di interesse pubblico», Il Timone ha voluto sentire il parere professionale del dottor Roberto Marchesini, psicologo e psicoterapeuta e autore del libro Mio Dio che Ansia!. Perché, se è vero che a livello giurisprudenziale certe affermazioni poco contano, a livello relazionale, psicologico e anche cristianamente parlando qualcosa ci dicono.
Dottor Marchesini, che idea si è fatto delle frasi – a tanti parse gravi – dette da Nicola Turetta al figlio Filippo?
«Ho dovuto cercare le frasi in questione perché non seguo i media. Francamente, mi sfugge la gravità di queste frasi: visitare i carcerati e consolare gli afflitti sono ancora opere di carità, ancora più importanti se messe in atto da un padre nei confronti del proprio figlio (del quale temeva il suicidio). Ha minimizzato l’accaduto? Non mi pare: non ha negato l’omicidio, ha ricordato al figlio che una persona non è ciò che fa. Forse il padre è l’unico che vede Filippo Turetta come una persona e non come l’allegoria del patriarcato femminicida, il colpevole unico e simbolico di tutti i femminicidi compiuti in Italia. Tutti abbiamo in mente il volto e il nome di Filippo Turetta; chi ricorda quelli dell’omicida di Michele Faiers Dawn, uccisa pochi giorni prima di Giulia Cecchettin? E di Etleva Kanolja? E delle altre 197 donne uccise l’anno scorso? Sembra che Turetta sia il patriarcato incarnato, il colpevole assoluto, il mostro archetipico dell’era woke. È un essere umano e il padre l’ha trattato come tale».
L’amore di un padre può passare, sia pure nell’intenzione di salvare un figlio assassino dal rischio di suicidio, attraverso una distorsione della realtà, oppure la carità deve sempre passare attraverso la verità? «Senza verità non c’è carità, punto. Ma non mi pare che il padre di Turetta abbia operato una distorsione della realtà… a meno che lo sia il guardare con sguardo compassionevole un figlio assassino. C’è una cosa che mi ha insegnato Chesterton, nel racconto Il segreto di padre Brown, e che mi ha aiutato moltissimo nel mio lavoro di psicoterapeuta: ciò che ha fatto un mio fratello avrei potuto farlo anche io. Lui non è diverso da me, non è un mostro: è come me. Io sono come lui».
In questa vicenda, un ruolo discutibile l’hanno avuto anche i mass media, facendo uscire frasi, per quanto censurabili, comunque riservate: non trova? «Assolutamente, anzi: sinceramente trovo che questa sia la cosa più preoccupante e disturbante dell’intera faccenda. Chi ha passato ai media questa intercettazione? Si sta indagando su di lui? Se verrà identificato, verrà punito? Dubito. Sono anni che continua questo andazzo, questa commistione becera e intollerabile tra gli inquirenti e i giornalisti e ormai nessuno più si scandalizza. Trovo tutto questo una vera barbarie».
Forse questo ulteriore, drammatico sviluppo del caso Cecchettin si può considerare una conferma del deficit valoriale ed educativo che ci circonda? «Certamente. Non esiste più alcuna forma di misericordia, se qualcuno cade in disgrazia chiunque si accanisce su di lui. Il processo a Filippo Turetta non è ancora cominciato, ma in realtà è già finito: è già stato condannato nei saloni delle parrucchiere, nei bar, nelle chiacchiere fuori da Messa. Se la civiltà – come ha detto qualcuno – comincia con l’invenzione del processo, siamo ripiombati nella barbarie, ritornati alla giustizia sommaria, al linciaggio. Chi finisce sotto il dito accusatore non ha più diritti, non è più umano. Abbiamo dimenticato il “Non giudicare”, tutti si ergono giudici (implacabili) dall’alto della loro ipocrisia; tutti scagliano la prima pietra sentendosi buoni, puri, innocenti. I media ci dicono cosa pensare e persino su quali argomenti; di cosa indignarci a comando, cosa che ci fa sentire sempre e comunque dalla parte giusta. I «cinque minuti d’odio» del Grande Fratello sono diventati la nostra realtà quotidiana. È il trionfo dell’ipocrisia, il bellum omnium contra omnes. Non vedo nulla di cristiano in tutto questo». (Fonte foto: Ansa/Facebook)
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