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11.12.2024

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Leo Aletti e il caso Mangiagalli, il racconto di Luigi Frigerio
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23 Agosto 2024

Leo Aletti e il caso Mangiagalli, il racconto di Luigi Frigerio

Per gentile concessione pubblichiamo il testo integrale dell’intervento del professor Luigi Frigerio tenuto presso lo stand delle ASSOCIAZIONI PER LA VITA (pad. C4) al Meeting di Rimini, giovedi 22 agosto 2024

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Chi l’ha conosciuto non può dimenticare la personalità di Leo Aletti (1945-2022), una voce chiara e forte, sostenuta da un’unica certezza: “Chi difende l’innocente non è per la morte, cioè non può morire! ”
Leo è stato ginecologo, primario e docente, ma soprattutto un uomo che ha dedicato tutta la vita a difendere e proteggere i bambini prima della nascita, pagando a caro prezzo il suo impegno sul lavoro e nella vita quotidiana dentro e fuori l’ospedale.
Ho avuto il privilegio di conoscere Leo sul finire degli anni ‘70, quando ero ancora uno specializzando alla clinica Mangiagalli e lavoravo con lui, nel padiglione San Giuseppe di Oggiono, sezione staccata dell’ospedale di Bosisio Parini, nella Brianza Lecchese.
Erano gli anni in cui il partito radicale di Marco Pannella ed Emma Bonino, fiancheggiati da alcuni grandi giornali, si davano da fare per liberalizzare l’aborto nel nostro paese.
Il Corriere della Sera e il Giorno pubblicavano la notizia che in Italia ogni anno si eseguivano 3-4 milioni di aborti clandestini con la morte conseguente di 25.000 donne all’anno. Si trattava di numeri immaginari, contradetti dalle statistiche che indicavano nel 1972 il decesso di 409 donne in età fertile per complicanze della gravidanza e del parto in genere.
Nel 1973 la Corte suprema americana aveva imposto l’aborto legale in tutti gli Stati dell’Unione. (sentenza Roe Vs. Wade).
Così anche in Italia, nel 1975, una sentenza della Corte costituzionale (la sentenza Bonifacio, dal nome del suo Presidente) aveva ampliato i confini dell’aborto terapeutico introducendo le motivazioni psico-fisiche senza che ricorresse lo stato di necessità.
Un anno dopo nel luglio del 1976, a Seveso in Brianza si verificò l’episodio della nube tossica, quando si sprigionò la diossina da un reattore dell’ICMESA, una fabbrica di profumi di proprietà della Roche, la multinazionale farmaceutica con sede in Svizzera.
Tre medici della Mangiagalli di Milano ( dottori Brambati, Dambrosi e Buscaglia) si recarono a Seveso dove iniziò una campagna sanitaria, mediatica e politica per dissuadere tutte le donne in gravidanza dal mettere al mondo figli potenzialmente malati. Si disse che la diossina è mutagena, oncogena e teratogena: che avrebbe provocato mutazioni genetiche, tumori e che avrebbe favorito la nascita bambini malformati.
Chi rifiutava il consiglio di abortire si era perfino sentito dire dai medici: “signora si tenga pure il suo mostro in pancia”. Questo era il clima di allora.
Nella Clinica Mangiagalli di Milano si praticarono i primi 33 aborti c.d. terapeutici sulla base della sentenza Bonifacio. I resti dei bambini abortiti vennero esaminati nei laboratori dell’università di Lubecca dove non fu riscontrata alcuna malformazione.
Insieme a Leo decidemmo di divulgare questa notizia pubblicandola sul foglio periodico Solidarietà, in distribuzione anche a Seveso.
Questa notizia subito generò grande scalpore, ma i media favorevoli all’aborto ci accusarono di “minimizzare e nascondere tutti i pericoli”.
Così questi dati furono silenziati e poi sottaciuti perché si comprese subito che questa di Seveso era l’occasione d’oro, il cavallo di Troia, per introdurre l’aborto nella legislazione italiana, cosa che infatti avvenne puntualmente due anni dopo con l’approvazione della legge 194.
Nel 1981 Leo tornò in Mangiagalli dopo la parentesi di Oggiono e insieme continuo l’impegno per vita che consolido ancor più la nostra amicizia.

UN AVVENIMENTO IMPREVISTO

Alla fine dell’estate 1982 Rosy, una giovane ostetrica della Mangiagalli manifestò i sintomi di un “tumore dell’osso sacro che infiltrava i muscoli enervi del bacino”. Il tentativo di asportare la malattia in un grande ospedale lombardo aveva sfiorato la tragedia quando dopo pochi minuti dall’inizio dell’intervento si era verificata una grave emorragia.
Allora si decise di intraprendere il viaggio della speranza per sentire il parere autorevole di uno specialista dell’università di Göteborg. Partendo da Milano, Rosy piangeva per il dolore fisico e perché conosceva bene la gravità della sua malattia Allora le parole sgorgarono spontanee come per la memoria di una cosa già udita: “questa malattia non è per la morte! C’è un posto in Jugoslavia dove la Madonna da più di un anno appare a 6 ragazzi. Se tutto andrà bene andremo là per ringraziare. Da quel momento tutto cambiò…
Nel dicembre 1982 a Göteborg Rosy fu sottoposta a un intervento lungo e complesso.
Al risveglio Rosy disse: sono viva, Dio è grande, è un miracolo. Rosy guarì e tornò a svolgere il suo lavoro di ostetrica.
Nell’aprile 1983 con Rosy e alcuni suoi famigliari ci recammo nella chiesa di San Giacomo a Medjugorje per ringraziare. Nella sagrestia quella sera erano presenti 3 ragazzi: Ivanka Ivancovic, Marja Pavlovic e il piccolo Jakov Colo di 12 anni. I ragazzi si inginocchiarono contemporaneamente
Proprio Jakov alla fine dell’apparizione si recò da una giovanissima suora e le parlò in croato. La suorina si avvicinò e mi domandò in inglese: sei forse tu il ginecologo?
Rimasi chiaramente stupito ma non potei che rispondere affermativamente. La suora proseguì dicendo: “Jakov ha detto che nostra Signora benedice te e quelli che lavorano con te nell’ospedale milanese per quello che state facendo, voi dovete continuare. Dovete pregare. La Madonna benedice gli ammalati di questo ospedale, gli ammalati per cui questa sera avete pregato e quelli per cui voi pregherete”.
Tornando in Mangiagalli raccontai questi fatti all’amico Leo che subito propose a tutti un incontro settimanale nella chiesetta dei SS Martiri Innocenti. E questo avvenne regolarmente. In quegli stessi anni, era il 1984, nacque il Centro di aiuto alla vita della Mangiagalli per sostenere le maternità difficili e controverse.
Erano gli anni della diagnosi prenatale, dell’amniocentesi e della villocentesi per individuare feti malati e malformati da eliminare con l’aborto selettivo o elettivo che dir si voglia.
L’applicazione permissiva della 194 aveva creato un clima di tensione nella clinica dove erano presenti medici obiettori e non obiettori. Era la guerra fra Sparta e Atene dentro il primo ospedale italiano dove si sperimentava la 194 e si proponeva l’adozione della selezione genetica prenatale senza se e senza ma.

Il CASO MANGIAGALLI

Il caso Mangiagalli scoppiò il 28 dicembre 1988 (festa dei santi martiri Innocenti) con la pubblicazione sul quotidiano Avvenire di un breve articolo al vetriolo scritto in prima pagina dal direttore pro tempore Alessandro Sallusti.
Insieme a Leo avevamo comunicato ad Avvenire la notizia che un aborto terapeutico sarebbe stato eseguito all’indomani in Mangiagalli dai ginecologi Francesco Dambrosio e Bruno Brambati su una gestante al 5° mese di gravidanza.
Il giorno dopo puntualmente si eseguì un aborto chirurgico su un feto, di sesso femminile con un cromosoma di troppo, la tripla X, ovvero una condizione benigna da cui può talora derivare il rischio di infertilità o di menopausa precoce a 30 o 40 anni. La diagnosi a posteriori si rivelò sbagliata perché la bambina aveva un patrimonio genetico normale.
Intanto questa creatura era stata comunque abortita.
Questo era solo uno dei 1800 aborti terapeutici del secondo trimestre eseguiti in Mangiagalli dall’entrata in vigore della 194. Nel 36% dei casi si trattava di aborti eugenetici per anomalie o malformazioni anche lievi.
Nel 63% dei casi comparivano motivazioni psicologiche del tipo “la pz. da giovane è stata cleptomane. Ha raggiunto la scolarità obbligatoria con le 150 ore del sindacato. E un soggetto psicolabile. Queste condizioni psicologiche rendono necessaria l’interruzione della gravidanza etc. etc”.
Il ministro della sanità, Carlo Donat Cattin, inviò in Mangiagalli gli ispettori ministeriali ipotizzando la violazione della legge 194 e provocando la reazione brutale dell’abortismo ideologico e di una parte consistente della stampa abortista.
Il 3 febbraio 1989, il consiglio di amministrazione della Mangiagalli a maggioranza socialista sospese dal servizio i due ginecologi (Leo Aletti e Luigi Frigerio), deferendoli alla commissione disciplinare e denunciandoli all’ordine dei medici e alla magistratura perché avevano rivelato segreti d’ufficio. In realtà non era stato rivelato alcun segreto, perché era stato descritto un caso clinico reale di cui però nessuno conosceva l’identità come avviene durante i congressi medici.
Il caso Mangiagalli però provocò un autentico putiferio, ma i due medici sospesi dal lavoro non furono lasciati soli, al loro fianco si schierò non solo il movimento al Comunione e Liberazione, ma un popolo vero e proprio.
Un volantino del Movimento Popolare, intitolato “Mangiagalli – Una vittoria per la libertà”, pubblicizzò la sentenza che dichiarava illeggitima la sospensione dei due ginecologi, riportando un resoconto della mobilitazione di quei giorni: 80.000 cittadini avevano firmato la petizione della CISL Sanità, esprimendo solidarietà ai due medici e chiedendo la revoca immediata della sospensione dal lavoro: circa 15.000 telegrammi di solidarietà, 30.000 firme di medici e operatori sanitari e altrettante di personalità del mondo politico ed ecclesiale e di semplici cittadini…».

LEO TESTIMONE

Suor Annarosa caposala del reparto Suor Giovanna della Mangiagalli cosi ricorda Leo nei giorni della sospensione dal lavoro: “Quando l’ho visto nel santuario della Madonna Bambina era seduto (e gli ho chiesto) «Dott. Aletti cosa fa qua?» Mi rispose: «Sto aspettando Maria perché la Madonna mi faccia la grazia di prendere lo stipendio altrimenti non so cosa dare da mangiare ai miei figli. Lo avevano sospeso perché aveva denunciato un aborto oltre il quinto mese, quindi aborto non era”. Suor Annarosa aggiunge: “Leo è stato un vero testimone di Cristo!”
Nell’ottobre del 2022, il vescovo di Karaganda (Adelio Dell’Oro), amministrando a Milano il sacramento della Cresima a 44 adulti e bambini, citò diverse esperienze missionarie, tra cui quella di Carlo Acutis e poi quella di alcuni amici. Tra questi ricordò che quando era a Porta Romana, aveva un amico, un grande ginecologo, il Dott. Aletti padre di numerosi figli, che lavorava alla Mangiagalli dove aveva salvato tanti bambini dall’aborto con la sua testimonianza. Per questo era stato trascinato anche in tribunale. Un giorno poi l’aveva incontrato per strada e Aletti gli aveva domandato “Adelio qual è la cosa più importante? E subito Leo rispondendo aveva detto: “Voler bene a Gesù”.
Il vescovo aveva concluso l’omelia con queste parole: “Il 15 agosto Leo Aletti ha partecipato alla Messa e poi è andato in Paradiso; ognuno di noi è stato chiamato in un posto per un compito” a conferma che Leo è maestro e testimone coraggioso.
Quando esplose il “caso Mangiagalli”, Leo Aletti ai giornalisti che lo aspettavano fuori dall’ospedale, rivelò il senso del suo impegno a difesa delle donne e contro l’ipocrisia dell’aborto. Raccontò che non faceva altro che alzare un inno di lode al grembo della Vergine Maria, che è riferimento ideale per tutte le mamme.
Questa spiegazione, perfettamente coerente coi canoni della teologia mariana, risultò paradossale in quella circostanza e soprattutto era difficilmente comprensibile agli occhi di reporter abituati alla “cronaca nera” che senza troppi voli spirituali volevano capire quali fossero i reati segnalati in “Mangiagalli”.

Leo davvero non aveva peli sulla lingua. Proprio sette anni fa, un Parroco della provincia di Biella invitò l’on. Emma Bonino a parlare in chiesa di accoglienza degli immigrati che, per la Bonino, sono indispensabili per contrastare l’inverno demografico e la crisi della natalità. Quel giorno, Aletti da solo era partito da Milano e si era recato in chiesa in mezzo al pubblico.
Al momento delle domande Leo intervenne e ricordò che il movimento radicale e la Bonino, con la promozione dell’aborto, avevano dato il più grande contributo a favore della denatalità. Ricordò che la prima accoglienza è verso la vita umana nascente. Leo fu sommerso da fischi e urla, e gli fu impedito di parlare, con tanti bravi cattolici impegnati a urlargli “Fuori, fuori, fuori”: ma Leo non demordeva.
Il ricordo di Leo, combattente per la vita, sarebbe davvero incompleto se non si dicesse che tutto nasceva dall’amore a Gesù e alla Verità sull’uomo.
Quel popolo da cui Leo è stato generato, oggi non è scomparso..
Noi oggi siamo qui. La sua memoria rimane viva in tutti quelli che lo hanno conosciuto.
Leo è stato testimone tenace del Natale, che non ha mai perso il suo potere sul mondo anche se il mondo oggi vuole rinnegare il suo significato.
Come dice il titolo del Meeting, “se non siamo alla ricerca dell’essenziale allora cosa stiamo cercando?”
Leo con la sua vita ha sempre testimoniato la ricerca dell’essenziale.
Per questo lo ricordiamo con affetto e lo ringraziamo, accogliendo interamente la sua straordinaria eredità.

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