«Lo stillicidio di azioni necessarie per evitare l’uccisione di una bambina da parte delle istituzioni rende l’idea di quanto fare il bene sia oggi faticoso e dello scontro con il male che è in atto nelle nostre società. E indica la lotta cui siamo chiamati». Così la giornalista di lungo corso Martina Pastorelli descrive il caso di Indi Gregory, la bambina di otto mesi affetta da una malattia rara la cui vicenda è diventata una bergmaniana partita a scacchi con la morte. O una cupissima spy story.
Il Queen’s Medical Hospital di Nottingham che ne chiede la soppressione; un giudice che dà ragione ai medici inglesi; un lettino dell’ospedale romano Bambino Gesù pronto ad accoglierla; il governo italiano che conferisce a Indi la cittadinanza; il console italiano di Manchester, tutore legale della piccola, che si muove per salvarla; un team di avvocati che lavora instancabilmente; la Presidenza del Consiglio dei Ministri che chiede formalmente di prendere in carico la giurisdizione sul caso. Addirittura la Premier Meloni che invia una lettera al Lord cancelliere e segretario di Stato per la Giustizia inglese assicurando che il Bambino Gesù garantisce «la completa assenza di dolore nel trattamento». Nulla. Tutto vano rispetto a un’ideologia che monta in furia omicida.
«UN’OSTINAZIONE SATANICA»
Ieri, alle 18 ora italiana, i giudici inglesi hanno respinto su tutta la linea l’appello dei genitori di Indi Gregory, negando sdegnatamente il ricorso alla Convenzione dell’Aja perché fosse trasferita in Italia. Non solo. Con una fretta che sa di malcelata vergogna, il distacco dei sostegni vitali fissato inizialmente per lunedì 13 potrebbe essere addirittura anticipato a oggi (l’opinione pubblica che si sveglia dal sonno gioca a favore della vita, quindi non c’è tempo da perdere).
Il dolore e l’imbarazzo di tanti sono sintetizzati da un Alfredo Mantovano, sottosegretario di Stato, che abbandona il suo proverbiale riserbo: «L’abbiamo visto tutti il video della piccola Indi mentre stringe con la sua manina il dito della persona che ha davanti: il che significa che reagisce, è viva, è vitale, non è un tronco», nonché da quell’aggettivo speso dal presidente di Pro Vita & Famiglia Jacopo Coghe (forse l’unica parola in grado di dare un senso alla vicenda): «L’ostinazione dei giudici inglesi nel voler mettere fine alla vita di questa piccola combattente […] è qualcosa di semplicemente satanico».
L’UTILITARISMO CINICO COME IL “LETTO DI PROCUSTE”
La morte sempre più vicina della piccola Indi, 8 mesi e bellissimi occhi da cerbiatta, scaraventa un occidente sazio e disperato sul mitologico “letto di Procuste”, locandiere dell’Attica avvezzo a legare i suoi ospiti e torturarli. Come in una lugubre metafora dell’oggi, le misure del viandante dovevano essere perfettamente conformi al quelle del famoso letto. A un ospite troppo alto Procuste taglia le gambe con un’ascia, ad uno troppo basso spezza le ossa per “stirarlo” e adattarlo alla lunghezza del giaciglio. È nient’altro che il benthamiano sistema utilitarista, cinico e “in purezza”, quello che arriva a modificare (e uccidere) gli uomini (e i bambini) per soddisfare un’idea malata di efficienza; quello che soffoca la realtà quando questa non si adegua a convenienti modelli economici; quello che inventa “migliori interessi” per ubriacare la società con folli criteri di giudizio. Nessuno però osi parlare di “selezione dei più deboli”, che «gli eugenisti», scriveva Chesterton, «sono soprattutto eufemisti».
L’appello di Indi a diventare nuovi Teseo (fu lui, dopo la vittoria sul Minotauro, a eliminare l’omicida Procuste) non può essere indirizzato a sinistra. Non ancora. Il tempo del rinsavimento sembra lontano. Lo dimostrano le macabre uscite di questi giorni: dal virologo piddino Crisanti per il quale «Portare in Italia la piccola Indi è una inutile crudeltà», all’ex presidente del Comitato di bioetica Lorenzo D’Avack, le cui sobria intervista Repubblica ha sintetizzato con questo titolo: «È una scelta disumana tenere in vita così la bambina. Che ipocrisia darle la cittadinanza».
«NESSUN BENE COMUNE SENZA IL DIRITTO ALLA VITA»
Se davvero “tutto concorre al bene”, il sacrificio di Indi e lo strazio dei suoi genitori dovranno servire a qualcosa. E non soltanto a prendere «una pausa di riflessione», come scriveva Alessandro Sallusti su Libero all’indomani dell’uccisione di Shanti De Corte, ventitreenne belga sopravvissuta agli attentati terroristici di Bruxelles che dal suo Paese ha chiesto e ottenuto l’eutanasia per «sofferenza psicologica insopportabile». Urge che con questa morte innocente e finalmente rumorosa, famiglie, scuole, movimenti associativi, politici troppo allineati, abbandonino definitivamente posizioni mediane, comode, ipocrite, furbe (e un po’ paracule) e si decidano finalmente alla battaglia culturale da sempre più urgente: quella per la vita. Dal concepimento alla morte naturale. «Non è possibile costruire il bene comune», scriveva Giovanni Paolo II nell’Evangelium Vitae, «senza riconoscere e tutelare il diritto alla vita, su cui si fondano e si sviluppano tutti gli altri diritti inalienabili dell’essere umano». Non sarà facile: come ha scritto Davide Prosperi citando Giussani «ci vuole del Coraggio a sostenere la sofferenza degli uomini».
Nell’epoca che ha inventato le Paralimpiadi (magari per quei ragazzi down scampati alla diagnosi prenatale), il disabile bambino, quello che non ha voce, vale meno di qualsiasi orso del Trentino. Molto di meno. Difendere Indi Gregory significa difendere le basi della nostra civiltà, ucciderla vuol dire suicidarci.
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