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Maria ai piedi della croce
NEWS 29 Novembre 2017    

Maria ai piedi della croce

La Madre ai piedi della croce
di Vittorio Messori

 

 

Riprendiamo (e concludiamo) l’analisi dei versetti del vangelo di Giovanni sulla presenza di Maria e dell’Apostolo sotto la croce. È la nostra risposta a chi afferma che non può essere storica quella presenza e che, dunque, sarebbe una “pia frode” l’affidamento della Madre a Giovanni da parte di Gesù. In questo modo, sarebbero costruite sul nulla le conseguenze della maternità spirituale di Maria per gli uomini tutti, conseguenze derivate da una millenaria riflessione dei credenti. Non si tratta, dunque, della negazione di un episodio secondario, poco significativo: al contrario, qui si cancellerebbe una delle basi non solo della devozione ma anche della teologia mariana.
Come dicevo nella precedente “puntata”, al pari di molti altri ricercatori, nei miei tre libri dedicati al Gesù della storia non mi sono posto il problema della storicità di quei versetti giovannei non perché temessi di non potere risolverlo, ma perché problematico non mi sembrava affatto. E ho già mostrato, la volta scorsa, come fossi tra compagni insospettabili; in effetti, anche autori laicisti e protestanti danno ovviamente un significato diverso da quello cattolico alle parole di Gesù dalla croce, considerandole solo un affidamento “pratico”, di necessità per una vedova, ma non considerano un’invenzione la presenza dei Due sul calvario.
Abbiamo visto, comunque, che la presenza di parenti ed amici nelle vicinanze del patibolo, anche a ridosso di esso, non era vietata dalle leggi e dalle consuetudini romane. A questo proposito, aggiungiamo ora un altro particolare che la volta scorsa avevamo trascurato. È stato detto, cioè, che, nello stato in cui erano ridotti, i crocifissi non potevano parlare. È una affermazione smentita sia dagli storici che dai medici. Gli storici antichi, infatti, citano spesso non solo le urla strazianti e continuate dei pazienti appesi (la morte poteva sopraggiungere anche dopo due o tre giorni) ma riferiscono di veri e propri dialoghi tra il moribondo e gli astanti. Con l’imperatore Teodosio, nel IV secolo, per rispetto alla passione del Cristo, la pena della crocifissione fu abolita e non se ne ebbero più casi “ufficiali” in Occidente. Dico “ufficiali”, perché anarchici e comunisti, durante la guerra civile spagnola iniziata nel 1936, inchiodarono spesso preti, religiosi e suore alle porte delle chiese e dei conventi. Qualche crocifissione, purtroppo, ci fu anche in Italia nei riguardi di fascisti catturati dai partigiani “rossi” nei giorni che seguirono la fine della guerra, nel 1945. Evidentemente, volevano imitare i loro compagni iberici. A quanto pare, qualche terribile esperienza, a fini sedicenti “scientifici”, fu praticata nei lager nazisti e negli altrettanto terribili campi sovietici, cinesi, cambogiani. In Oriente, poi, il mondo musulmano praticò spesso questa pena disumana, inflitta anche da tribunali “regolari”. Ebbene, sappiamo non solo dagli storici dell’antichità ma anche dalle cronache “moderne” – o, comunque, più recenti – che la possibilità di parlare del condannato non è impedita, almeno fino a quando non si giunga allo sfinimento terminale. I medici confermano: anche nel caso (come in quello di Gesù) di crocifissione senza “sedile” – un pezzo di legno sporgente sul quale il condannato stava a cavalcioni – l’appeso poteva articolare parole, seppure col terribile dolore di sollevarsi, per poter respirare, appoggiandosi al chiodo che trafiggeva i piedi.
Ma per tornare – in estrema sintesi – a ciò che abbiamo già detto nella precedente “puntata”: Maria poteva, anzi doveva, essere a Gerusalemme, come ogni pio ebreo ed ebrea, per l’obbligatorio pellegrinaggio pasquale. E non fa alcun problema il fatto che i Sinottici non ricordino la sua presenza in città prima del Golgota, poiché questo riserbo corrisponde al loro modo di raccontare. Abbiamo poi visto che la presenza di Giovanni in quel luogo era in qualche modo obbligata, per un figlio affettuoso come certamente era. Assieme al fratello Giacomo, Giovanni è figlio di Zebedeo e di Salome. E questa fa parte del gruppo delle donne «che avevano seguito Gesù sin dalla Galilea» e che, per i Sinottici, assistono al martirio del Maestro. L’evangelista, dunque, era lì anche per confortarla ed assisterla.
Ma passiamo ora a nuovi rilievi. A cominciare da questo, di certo non irrilevante: quale che sia stato il motivo della sua presenza, i Sinottici dicono che i discepoli erano tutti fuggiti dopo la cattura di Gesù, per paura di cadere essi pure nelle mani del Sinedrio ebraico e del Procuratore romano. Come è possibile che il solo Giovanni sfidi quei potenti così ostili e pericolosi e che sia addirittura, in piena vista, accanto alla croce?
Ma questa è una domanda che non tiene conto del fatto che questo, che diverrà l’ultimo evangelista, era in una situazione del tutto particolare. In effetti, solo lui ci informa che, prima di essere portato da Caifa, il Sommo Sacerdote in carica, Gesù fu trascinato, legato come era, davanti ad Anna. Il quale, dopo avere tenuto per molti anni la primazia religiosa in Israele, ormai anziano, aveva formalmente passato la carica al marito della figlia ma continuava a muovere le fila, da vecchio “padrino” assimilabile a un mafioso odierno. In effetti, le stesse fonti ebraiche sono durissime con questo notabile, preoccupato di potere e ricchezza ben più che del culto di Jahvé. Un certo antigiudaismo cristiano dovrebbe tenere conto che proprio i giudei contemporanei erano avversi alla casta religiosa in quel momento dominante. La condanna di Gesù non fu chiesta dagli “ebrei” ma dagli israeliti che facevano parte di una nomenklatura esecrata dal popolo. Rileggiamo, comunque, il testo di Giovanni (18,15ss), là dove dice che il prigioniero è condotto in casa di Anna: «Intanto Simon Pietro seguiva Gesù insieme a un altro discepolo. Questo discepolo era conosciuto dal Sommo Sacerdote ed entrò con Gesù nel cortile. Pietro, invece, si fermò fuori, vicino alla porta. Allora quell’altro discepolo, noto al Sommo Sacerdote, tornò fuori, parlò alla portinaia e fece entrare Pietro».
Ho esaminato, con minuzia, questo episodio nel mio Patì sotto Ponzio Pilato? e rimando, dunque, a quelle pagine chi volesse approfondire. Qui, mi limito a riportare quanto è strettamente necessario. Cominciando dal fatto che, stando a molti biblisti, ci troveremmo davanti a una vanteria inammissibile e anzi, ridicola. Ma, via, che verosimiglianza può esserci in quel «discepolo conosciuto dal Somma Sacerdote», ripetuto per giunta due volte! Un oscuro pescatore di Galilea in familiarità con l’ebreo più potente d’Israele!
Beh, come spesso altrove, anche qui questi specialisti ipercritici mostrano di non essere troppo al corrente del linguaggio semitico, per il quale si indica la persona intendendo al contempo anche i suoi: parenti non solo, ma pure schiavi e servi. Soprattutto in un caso del genere, quando cioè si parla di persona influente e nota. Dicendo, dunque, «Sommo Sacerdote » se ne intende la casa, con tutti coloro che vivono con e per lui: compresa quella «portinaia» di cui parla l’evangelista e che concede anche a Pietro l’accesso al cortile. Non sappiamo, ovviamente, in che modo fosse nata la conoscenza tra quella serva e Giovanni, ma una ipotesi credibile è che si trattasse di una compaesana. Di una che, proprio perché veniva dalla Galilea (come molti, attratti dalle possibilità di lavoro della capitale) non ignorava che Giovanni seguiva il profeta originario delle loro zone. Pochi, in effetti, notano le implicazioni del versetto 17: «E la giovane portinaia disse a Pietro: “Forse anche tu sei dei discepoli di quell’uomo?”». Perche quell’«anche tu» se la ragazza avesse ignorato la situazione di Giovanni, cui non ha bisogno di domandare alcunché?
In quel Patì sotto Ponzio Pilato? che citavo sopra, avanzavo questa ipotesi, per spiegare la conoscenza personale. Ma di ipotesi ce ne potrebbero essere altre, come quella che parte dall’osservazione che Zebedeo e i suoi figli erano titolari di una impresa di pesca la quale (come tutte quelle del lago di Tiberiade) riforniva anche Gerusalemme, priva di acque e dunque di pesce. Il Mar Morto è più vicino alla città ma, come si sa, non a caso si chiama così, visto che la salinità delle acque lo rende sterile, privo di ogni vita. Dunque, nella capitale di Israele la fornitura del pesce era assicurata dal lago di Galilea. Perché, come fornitore anche di quella casa, Giovanni non poteva conoscere la servitù e in particolare la portinaia cui avrebbe potuto consegnare il pesce per le cucine? Di questa ipotesi non parlo nella mia inchiesta sulla Passione e neppure di un’altra, essa pure verosimile, sostenuta da seri studiosi e ancor più interessante. Ecco, dunque: la madre di Giovanni, Salome, stando ad alcuni autori antichi e ad alcuni biblisti moderni, pare essere la sorella di Maria la madre di Gesù. Così che questi e Giovanni sarebbero cugini, seppure, a quanto pare, separati dall’età, visto che il discepolo avrebbe avuto tra i 18 e i 20 anni. Ma Maria e quindi anche Salome erano parenti di Elisabetta, moglie di Zaccaria, che era di stirpe sacerdotale e partecipava regolarmente, quando era il suo turno, alle liturgie del tempio di Gerusalemme. Dunque, Anna doveva conoscere bene Zaccaria e probabilmente anche la sua famiglia, a cominciare dalla moglie. Da qui la possibilità che i rapporti di Giovanni con la casa del vecchio “Padrino”, ancora Sommo Sacerdote dietro le quinte, non fossero soltanto al livello di servitù, ma ben più in alto. Viene forse da qui il fatto che “il discepolo che Gesù amava”, a differenza di Pietro e (pare) di tutti gli altri discepoli, non ha timore nel muoversi per Gerusalemme e non esita a recarsi al Golgota, per confortare la madre e per stare almeno accanto alla zia, Maria? L’episodio notturno nella casa di Anna mostra come Giovanni si aggira con scioltezza, mentre Pietro non può certo fare altrettanto ed è addirittura condotto al triplice rinnegamento del Maestro, con il disperato giuramento di non conoscerlo.
E qui, si può trovare risposta a un’altra domanda polemica dei “controapologeti”. Come mai, accanto alla croce, c’era Giovanni e non c’era Simone, proprio lui, che Gesù aveva rinominato Pietro, a mostrare che su quella “pietra” avrebbe fondato saldamente la sua Chiesa? Qualcuno – e tra essi quell’anonimo interlocutore su Internet da cui siamo partiti – parla addirittura di una vanità del discepolo più giovane, di un desiderio di porsi in vista, quasi di esibirsi mostrandosi il più fedele, di proporsi addirittura come capo di una “corrente” in contrasto con quella petrina. Per questo si sarebbe descritto come il solo coraggioso, come uno che non temeva di mostrarsi: mica come quel tremante e spergiuro Simone!
Chi afferma questo, non considera la situazione. Innanzitutto – lo abbiamo detto – Pietro non aveva le conoscenze che Giovanni aveva mostrato, addirittura nell’ambiente di quell’Anna che, assieme al genero Caifa, era colui che aveva voluto la condanna a morte. Ma, ancor più: è proprio soltanto il quarto vangelo che fa il nome di Pietro (dunque, riconoscendogli coraggio) raccontandoci quanto avvenuto alla cattura di Gesù: «Allora Simon Pietro, che aveva una spada, la trasse fuori, colpì il servo del Sommo Sacerdote e gli tagliò l’orecchio destro. Quel servo si chiamava Malco» (Gv 18,10). La cosa non sarà senza conseguenze, visto che, attorno al fuoco nella casa di Anna, succederanno cose inquietanti: «Intanto Simon Pietro stava lì a scaldarsi. Gli dissero: “Non sei anche tu uno dei suoi discepoli?”. Egli lo negò e disse: “Non lo sono”. Ma uno dei servi del Sommo Sacerdote, parente di quello a cui Pietro aveva tagliato l’orecchio, disse: “Non ti ho forse visto con lui nel giardino?”». La situazione era pericolosissima: Pietro era colpevole di quella che noi chiameremmo “resistenza alla forza pubblica”: una resistenza, per giunta, a mano armata, che aveva provocato il ferimento di uno della casa del Sommo Sacerdote e che solo per pochissimo non lo aveva ucciso. L’apostolo aveva puntato alla testa e solo lo scarto di pochi millimetri aveva tagliato l’orecchio e non la cervice. Insomma, il tentato omicidio di un uomo della legge nell’esercizio delle sue funzioni. Simone rischiava seriamente di far compagnia accanto a Gesù, su una croce. Inoltre, era il capo riconosciuto della banda e la sua punizione poteva servire di ammonimento. Mentre invece, per gli altri discepoli, è molto probabile che Anna e Caifa abbiano pensato di non ingigantire ulteriormente il caso, di lasciare che quei “poveri untorelli” si sbandassero, senza per il momento braccarli, morto in croce il loro Maestro e morto allo stesso modo, visto che c’erano i requisiti penali, il suo “vice”, quel Simone, Galileo esso pure. In effetti, anche se Pietro non finì malamente (per allora, visto che, come sappiamo, il martirio sarà il suo punto di arrivo) Gesù sì, e la previsione delle autorità si mostrò azzeccata: quegli straccioni si preparavano a lasciar perdere tutto e a tornare a casa e al lavoro. Chi poteva prevedere la Risurrezione che cambiò tutto?
Per tutto questo, insomma, poteva esserci Giovanni (protetto anche dal suo status di amico o almeno conoscente del clan dei Sommi Sacerdoti) ma non poteva certo esserci Pietro, sotto la croce. Qui non c’è alcuna vanteria, qui c’è la descrizione di un evento credibile.
Tra l’altro, rileggendo per l’ennesima volta i testi giovannei sulla Passione, ho notato che (per quanto io sappia, ovviamente) nessun biblista sembra essersi soffermato su alcune parole che stanno soltanto, assieme a molte altre, in questo vangelo. Torniamo al Getsemani, alla cattura, alla replica del Maestro alle urla di coloro che lo vogliono catturare: «“Vi ho detto: sono io. Se dunque cercate me, lasciate che questi se ne vadano”, perché si compisse la parola che egli aveva detto: “Non ho perduto nessuno di quelli che mi hai dato”» (Gv 18,9). È una promessa fatta da Gesù poche ore prima, all’ultima cena, dove Giovanni stava in una posizione privilegiata per sentire tutte le parole del grande discorso d’addio. Sta di fatto che egli solo sembra esserselo ricordato, e lo dice. Radicalmente fiducioso, com’era, in colui che amava e dal quale era riamato, queste parole non avranno forse contribuito, e in modo decisivo, a dargli la certezza che nulla di male poteva succedergli anche mostrandosi a viso aperto davanti ai nemici?
Resta un’altra domanda. Come mai i Sinottici parlano della presenza delle “donne che lo avevano seguito dalla Galilea” e Marco e Matteo danno alcuni nomi di loro ma solo Giovanni dice che c’era anche Maria? Se guardiamo bene, ci accorgiamo che ciò di cui parlano i tre primi Vangeli è un gruppo compatto e definito, quasi una sorta di confraternita o l’equivalente femminile del collegio degli apostoli: quello, appunto, delle donne galilee che lo avevano seguito nelle sue peregrinazioni, che lo avevano soccorso con i loro beni, che lo avevano servito. Anche prima dei racconti della Passione i Vangeli fanno riferimento a questa “categoria”, della quale Maria non faceva parte, essendo rimasta – da quanto traspare dagli indizi – nella sua Nazareth. Dunque, niente di strano che, se Marco e Matteo fanno alcuni nomi, non appaia quello della madre. Lei era a parte, come dimostrano anche gli Atti degli apostoli i quali, dandoci “l’organigramma” della Chiesa nascente dicono il nome degli apostoli e aggiungono che erano «insieme ad alcune donne e a Maria, la madre di Gesù» (Atti 1,14). Anche qui, come si vede, non è nel gruppo.
Ma è poi molto importante quanto osserva Charles H. Dodd, il biblista anglicano che abbiamo già citato e che non è certo sospettabile di preoccupazioni confessionali: «Stando ai tre sinottici, le donne non fanno parte del racconto della crocifissione, ma di quanto segue». E, cioè, della deposizione dalla croce, la preparazione del cadavere, la chiusura della tomba e poi i racconti del mattino di Pasqua. Insomma, sembra che per i tre evangelisti non importasse far sapere chi c’era sul Golgota, ma semplicemente fare un cenno alla presenza di donne attorno alla croce per il ruolo importante che svolgeranno quando tutto sarà compiuto. Ma Maria in quelle operazioni non ricoprì, pare, alcun ruolo perché forse Giovanni stesso avrà iniziato la sua missione di assisterla, portandola in qualche casa dove potesse stare sola con il suo dolore. Dunque, gli evangelisti non giudicarono necessario citarla.
Ci sarebbe poi da esaminare con attenzione il versetto di Luca 23,49, dove si dice: «Tutti i suoi conoscenti e le donne che lo avevano seguito fin dalla Galilea stavano da lontano a guardare tutto questo». Delle donne della “confraternita” abbiamo già detto. Ma chi sono «tutti i suoi conoscenti», in greco pantes oi gnostoi?
Sfoglio l’autorevolissimo, teutonico Kittel, come gli addetti chiamano abitualmente il Grande Lessico del Nuovo Testamento. La voce gnostos è firmata nientemeno che da Rudolf Bultmann, il principe della demitizzazione, il quale afferma che «in Lc 23,49 nei gnostoi, assieme agli amici, vengono compresi anche i congiunti». Ma chi è più “congiunto” della madre che, forse, prima stava “lontano” e poi avrebbe potuto avanzare sin sotto la croce, sostenuta dal nipote Giovanni? Dunque, anche nei sinottici ci sarebbe, seppure celato, un cenno a Maria?
Basta così, lo spazio è esaurito. Ma quanto detto, basta, credo, a mostrare che, qui pure, i cristiani non sono ingenui sprovveduti se leggono i Vangeli come cronache di quanto è davvero avvenuto.  

 

IL TIMONE  N. 111