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Missionari che salvano i disperati. Con Cristo, mica con il parolaio. Lettera dalla lontana Cambogia
NEWS 2 Gennaio 2015    

Missionari che salvano i disperati. Con Cristo, mica con il parolaio. Lettera dalla lontana Cambogia

di Padre Luca (Cambogia)

 

La prima volta che ho incontrato Vuon, mi trovavo in viaggio con alcuni cristiani della nostra comunità di Kdol Leu. Passando vicino alla missione di Kratiè, ci siamo fermati un attimo a salutare quel trionfo di tenerezza e bontà che è suor Savier, anziana missionaria thailandese. Appena sceso dal pulmino vedo un giovanotto venirmi subito incontro, cammina a fatica a causa di un’evidente storpiatura delle gambe, ma sfoggia un bellissimo sorriso a 34 denti (mancandogli due incisivi). Mi chiama lopok, cioè “padre”, come sono chiamati i sacerdoti in Cambogia. Lo guardo meglio, ma non è un volto conosciuto. Si presenta, si chiama Vuon e sta andando a Ratanakiri, la sua provincia natale, per prendere le ceneri dei genitori e portarle in una pagoda di Kratiè. Parliamo un po’ e mi spiega che, da alcuni mesi, sta studiando al Centro per disabili dei Gesuiti vicino a Phnom Penh. Al momento di salutarlo e riprendere il viaggio, avendo saputo che è al verde, gli lascio qualcosa, ma non molto, perché purtroppo mi faccio prendere dal dubbio che forse non sia tutto vero quello che mi ha detto. E lui, in cambio, mi dà una piccola colomba di legno che ha intagliato al Centro. Parto con l’idea di non rivederlo più. Ma nel pomeriggio, sulla strada del ritorno, ritrovo Vuon da un benzinaio mentre sta ancora aspettando un mezzo di trasporto per andare a Ratanakiri. Quando mi vede mi abbraccia commosso. Quel gesto mi intenerisce, forse Vuon è più onesto di quello che penso.

Dopo alcuni mesi, dovendo passare dal Centro dei gesuiti, ne approfitto per chiedere di Vuon. Lo chiamano e quando mi vede è tutta una festa, mi presenta i suoi amici, mi fa vedere la casetta dove vive e mi spiega che nel frattempo ha iniziato il corso di agricoltura e allevamento. La stessa scena si ripete quando ritorno dopo un paio di mesi, stavolta però mi fa conoscere anche i suoi insegnanti e mi porta a visitare i porcili e i pollai. Mi viene allora un’idea: proprio in quelle settimane, con il Consiglio Pastorale stiamo valutando la possibilità di iniziare un piccolo progetto di allevamento di polli e maiali; ne parlo con padre Indoon, giovane gesuita coreano responsabile del Centro. All’occasione successiva faccio la proposta a Vuon. È felicissimo. Fra poco concluderà il corso e non gli sembra vero di avere già un lavoro.

Il giorno che andiamo insieme a Kdol Leu, Vuon è tutto emozionato, durante il viaggio in macchina mi sommerge di idee per il nostro progetto. Si mette subito al lavoro: porcile, pollaio, casetta per anatre e tacchini… Non perde tempo. Ogni mattina, prima di iniziare le attività, partecipa anche alla Messa. Non è cristiano ma gli piace (…all’inizio aveva scambiato la chiesa per un ospedale, e non è l’unico!). Ascolta attentissimo le letture, e anche la mia omelia (e qui forse è proprio l’unico!). Una mattina durante la colazione mi dice: «Stamattina finalmente ho capito: Dio Padre ha mandato Gesù suo Figlio per salvarci!». Rimango sbalordito. Quella mattina a Messa erano venuti in due, lui e l’immancabile Jei Niang. All’omelia mi ero imposto di dire comunque un pensiero e, mezzo tramortito dal sonno, avevo sbiascicato appunto quel concetto, vergognandomi un po’ perché mi sembrava il più banale del mondo. E guarda invece che effetto aveva avuto su Vuon.

Un venerdì di Quaresima, durante la Via Crucis, vedo Vuon stare dietro a tutti. Forse non capisce cosa stiamo facendo, penso. Arrivati a metà, mi accorgo che Vuon è sempre indietro di una stazione, e si ferma a guardare fisso con gli occhi spalancati i quadretti con le immagini di Gesù che porta la croce. Rimango molto colpito e il giorno dopo gli chiedo come sia andata. Mi dice: «Padre, Gesù ha sofferto proprio tanto. Lui sì che può capire le mie sofferenze…». Inizia a raccontarmi dei suoi genitori, morti insieme su una mina anti-uomo mentre andavano a fare legna nella foresta, quando lui aveva appena tre anni. Mi racconta di come, essendo figlio unico, sia stato affidato al capo tribù del suo gruppo etnico, una specie di stregone, e di come un giorno si sia infilato in una camionetta di militari per andare a Phnom Penh a cercare fortuna. Arrivato nella capitale, viene preso sotto la protezione di un uomo senza scrupoli che lo manda in giro a chiedere l’elemosina e poi, alla sera, gli porta via tutto il ricavato. Vuon riesce a muoversi solo a gattoni, a causa di una poliomielite avuta qualche anno prima, è indifeso e in balìa degli altri. Spesso per la fame è costretto a mangiare quello che trova per terra, come ad esempio i resti dei panini lasciati dai turisti. Molti suoi compagni di strada fanno uso di droghe, sniffano la colla da scarpe, ma lui si oppone, e per questo viene picchiato e isolato. Alcuni di loro moriranno in quegli anni. Vuon resiste, finché un giorno una signora lo vede per strada e prova compassione. Si tratta di una donna svizzera che lavora in Cambogia per progetti sociali, conosce alcuni chirurghi e propone a Vuon di tentare un’operazione per farlo camminare. L’operazione riesce. Finalmente riprende a camminare sulle sue gambe seppure con una certa fatica. Dopo alcuni mesi, dopo aver trovato lavoro in una piantagione di verdure, incontra per caso padre Gerald, missionario francese, che gli propone di studiare al Centro per disabili dei Gesuiti. Vuon accetta e si sposta là.

Io ascolto Vuon commosso, altroché se ha capito il senso della Via Crucis! Durante i suoi primi cinque-sei mesi con noi, è sempre raggiante, contento e orgoglioso del suo lavoro. Ma un giorno, accade l’imprevisto: muore una delle due scrofe. Vuon mi telefona piangendo a dirotto per darmi la notizia. Cerco di consolarlo, ma da quel momento qualcosa in lui cambia, non è più gioioso come prima. Nei mesi successivi iniziano ad arrivarmi voci che, quando io non sono al villaggio, è spesso ubriaco e ne dice contro tutto e tutti. Resto sorpreso e stento a crederci perché quando gliene parlo sembra invece tutto a posto. Finchè un giorno le prove sono lampanti, ed è addirittura il nostro Vescovo ad esserne testimone. Si decide che Vuon non possa più rimanere con noi, la situazione è troppo compromessa. Viene allora accolto da una coppia del nostro villaggio che ha un progetto sociale in città. Ma anche lì, la stessa storia. Vuon è il primo ad esserne afflitto, si rende conto del problema e si dispera. C’è però una piccola luce ora a sostenerlo: ha con sé un’immaginetta di Gesù, in quei momenti la guarda e si sente consolato. Purtroppo però deve andarsene anche da là, decide allora di tornare a Phnom Penh per cercare un nuovo lavoro. Continuiamo a sentirci per telefono, ma dopo alcune settimane ne perdo le tracce. Finché un giorno mi chiama: «Padre, sono a Siam Reap, sto lavorando in un progetto agricolo dei gesuiti!». Sono contento per lui, e spero che stavolta vada tutto bene. Ma dopo un paio di mesi, mi richiama per dirmi che è passato ad un altro progetto agricolo gestito da un giovane cattolico filippino. Penso: «Ecco, ci risiamo…». Rimango allora in attesa di una terza telefonata per sentirmi dire che ha cambiato ancora una volta lavoro. E invece non arriva. Mi chiama sì, ma per dirmi che sta bene, che lavora ed è contento. E poi, un bel giorno, per dirmi che… ha trovato moglie!

Vuon e Mom si sposano secondo il rito semplice dei poveri, e presto arriva anche una bella bimba. Vivono in una capanna ma iniziano subito a mettere da parte i soldi per farsi una casetta. Il suo datore di lavoro mi conferma che Vuon si sta veramente dando molto da fare, ha anche iniziato un cammino di catechesi con sua moglie, e non beve più da parecchio tempo. In quel periodo, mi telefona spesso, sento in sottofondo i vagiti della piccola, la voce della mamma. Vorrebbe venire a salutarci a Kdol Leu, perché sono più di due anni che non ci vediamo, ma è troppo lontano.

Poi, due settimane fa, ecco l’occasione: nei documenti ha ancora la residenza qui con noi e deve cambiarla. Ne approfitta per venire con tutta la famiglia. Arrivano e… sorpresa: non sono in tre ma in quattro! Perché c’è anche un altro bimbo, il figlio avuto da Mom con un uomo che poi l’ha abbandonata al terzo mese di gravidanza. Parliamo a lungo, mi raccontano tante cose. Vuon mi dice che ora, quando si trova qualche soldo in tasca, non riesce più a spenderlo per sé, perchè gli viene subito in mente la sua piccolina e quello di cui potrebbe avere bisogno. Mentre li ascolto, ripenso dove era Vuon solo qualche anno fa e provo tanta ammirazione per lui. Quando ci lasciamo, consegno loro un aiuto per completare la loro nuova casetta, gli spiego che non sono soldi miei ma dei tanti amici che ci aiutano dall’Italia. Vuon con le lacrime agli occhi ringrazia Dio e promette di pregare ogni giorno per questi amici.

Quando penso a Vuon, penso ad una persona in cammino: avrebbe mille ragioni per fermarsi, prendersela con la vita, rivendicare tutto quello che non ha avuto, e invece va avanti, con il suo passo strascinato a causa della poliomelite e di altre ferite ben più profonde che solo Dio conosce, va avanti. Penso a sua moglie Mom e a Somnang (in khmer significa “Fortunato”) suo primo figlio. E penso alla loro bimba, Maria. Hanno infatti voluta chiamarla così in onore della mamma di Gesù.

Ripenso allora anche alla Vergine Maria e al suo sposo Giuseppe, che di sandali ne devono avere consumati tanti per le strade di Israele, in un cammino interiore ben più lungo e faticoso: quello della speranza e della fiducia, perché la vita è in mani ben più grandi delle nostre e io sono immerso in un progetto buono, in un infinito desiderio di bene che riesce a ricucire strappi troppo grandi e sanare ferite troppo profonde. C’è quindi da avere, come Maria e Giuseppe, e come Vuon, sempre tanta speranza. È quello che vi auguro di cuore per questo Natale.