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Per l’ermeneutica della continuità con san Pio X, il Papa delle grandi riforme
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21 Giugno 2014

Per l’ermeneutica della continuità con san Pio X, il Papa delle grandi riforme

Da Pio X. Alle origini del cattolicesimo contemporaneo (Lindau, Torino 2014) di Gianpaolo Romanato

 

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Chi era Pio X? Il buon parroco mite ed ingenuo dipinto dagli agiografi? L’arcigno conservatore nemico di ogni riforma creato dai tradizionalisti lefebvriani? Il cieco martellatore della cultura proposto dagli storici filomodernisti? O non piuttosto l’audace riformatore che chiuse la secolare stagione del temporalismo e proiettò il cattolicesimo verso la modernità?

A cento anni dalla morte la valutazione di questo pontefice – che regnò proprio all’esordio del XX secolo (1903-1914) e si spense pochi giorni dopo l’inizio della Grande Guerra – rimane incerta, problematica, passibile di opposte interpretazioni. Gli undici anni del suo regno sono all’origine, e non solo cronologicamente, della Chiesa novecentesca. […]

Tranne pochi lavori meritevoli di essere salvati, le numerose biografie di questo papa apparse negli anni della sua glorificazione ecclesiastica gli hanno più nuociuto che giovato, veicolandone un’immagine ripetitiva, artificiosa, falsamente buonista, frutto di una lettura passiva e acritica delle testimonianze fornite durante il processo di canonizzazione. Questo creò un primo inciampo interpretativo che ancora condiziona gli studiosi.

Poi arrivò il Concilio Vaticano II. Le riforme conciliari (della liturgia, della Curia romana, del diritto canonico, del catechismo, dei rapporti interconfessionali e interreligiosi) ovviamente andarono oltre Pio X. Ma la cultura postconciliare interpretò spesso questo andare oltre come un capovolgimento, quasi un azzeramento, della linea precedente. Si è determinato così uno stacco fra il prima e il dopo (stigmatizzato da Benedetto XVI nel celebre discorso alla Curia del 22 dicembre 2005) che ha creato attorno al papa trevigiano un’ombra oscura di negatività. Per chi interpretava il Concilio come l’assemblea «costituente che elimina la costituzione vecchia e ne crea una nuova» (uso le parole di Benedetto) era inevitabile vedere nel vecchio quasi solo scarti da gettare. Con la conseguenza che Pio X, che di quegli scarti era stato uno dei maggiori costruttori, finì anch’egli per essere scartato, scivolando rapidamente dietro le quinte del proscenio ecclesiastico.

L’ombra calata su di lui si è poi addensata a causa di un altro equivoco. La corrente tradizionalista guidata da mons. Marcel Lefebvre si è impadronita della sua memoria e ha rigettato alcune riforme del Concilio Vaticano II facendosi scudo del suo nome. Quando il vescovo francese fondò l’istituzione destinata a raccogliere i gruppi cattolici disorientati dai cambiamenti conciliari e dalla rottura con la tradizione insita nella nuova liturgia, nell’ecumenismo e nel dialogo interreligioso, non trovò di meglio che associarla al nome del pontefice da poco santificato.  […]

Con ciò l’incolpevole Pio X divenne quasi il garante del rifiuto del Vaticano II e di una ribellione alla Chiesa tramutatasi in uno scisma. Il fraintendimento di questo pontefice – che secondo Roger Aubert era stato il maggior riformatore della vita interna della Chiesa dopo il Concilio di Trento e aveva posto sempre l’obbedienza all’autorità a fondamento della disciplina ecclesiastica – non poteva essere maggiore. Contemporaneamente, negli anni postconciliari, fiorì tutta una sovrabbondante corrente storiografica che elevò la condanna del modernismo, pronunciata da papa Sarto nel 1907 con l’enciclica Pascendi, quasi ad unico paradigma interpretativo del suo pontificato, visto perciò esclusivamente come un momento di repressione, di chiusura al nuovo, di rottura con il mondo moderno. […]

Ma questo fraintendimento non poteva durare a lungo. La storiografia, infatti, ha continuato, e pour cause, a confrontarsi con la sua figura, i suoi tempi, il suo governo.  […]

Gli anni di Pio X sono apparsi così in una luce diversa da quella che era stata veicolata dalle facili scorciatoie agiografiche o dalla storiografia filomodernista: anni difficili, conflittuali, di rinnovamento, di risanamento morale, di ripresa di identità della Chiesa dopo la fine del potere temporale e l’unificazione italiana. Anni di incisive riforme ma anche di dure opposizioni. Gli studi compiuti non hanno potuto non rilevare, infatti, sia il fortissimo impatto del suo riformismo sia le resistenze altrettanto forti che incontrò. Un mondo stava tramontando e un altro stava nascendo quando fu eletto Pio X, un cardinale semisconosciuto, chiamato da una terra, il Veneto, che allora era lontana da Roma quanto la Polonia di Wojtyła un secolo dopo. Il suo impatto con la Roma ecclesiastica fu molto più traumatico di quanto non abbiano lasciato credere gli agiografi. In un’Europa ancora dominata dalle antiche case regnanti (gli Asburgo, i Romanoff, i Savoia, gli Hohenzollern, gli Hannover), l’elezione a papa di un uomo del popolo, che proveniva da una lontana periferia fu una novità molto più sconvolgente di quanto oggi immaginiamo.

Da questa revisione storiografica e culturale è emersa un po’ alla volta, sempre più chiaramente la cifra vera del suo pontificato: la riforma della Chiesa. Riforma delle strutture interne, dei meccanismi direttivi centrali, dell’organizzazione giuridica, del rapporto con i poteri civili, del personale dirigente. Ma anche delle forme liturgiche, della partecipazione dei fedeli, della vita religiosa del popolo. E ancora: riforma morale, dei costumi del clero, dell’impostazione dei seminari, del ruolo dei vescovi. Un progetto riformatore così incisivo non poteva non incontrare obiezioni, resistenze, rifiuti, sabotaggi. Da ciò ebbe origine lo scontro con la Curia, o con alcuni prelati di Curia, che il papa aggirò appoggiandosi soprattutto alla sua segreteria privata, la ben nota «segreteriola», e modificando la funzione della Segreteria di Stato, trasformata da attore semiautonomo della politica vaticana, quale era stata con Rampolla, al tempo di Leone XIII, a «segreteria generale» del papato, sotto lo stretto controllo del pontefice, con funzioni più religioso-pastorali che politico-diplomatiche.

Molti problemi che travaglieranno il governo centrale della Chiesa cattolica fino ai giorni nostri (la dualità fra la segreteria papale e gli organismi curiali, la difficoltà a tenere sotto controllo la Segreteria di Stato, la «solitudine» del pontefice nei palazzi vaticani, l’inevitabile preponderanza di alcuni prelati su altri, la sproporzione fra la grandezza del cattolicesimo, esteso in ogni angolo della terra, e la modestia dell’apparato dirigente vaticano) compaiono già in questo pontificato di inizio secolo. Anche da questo punto di vista la figura di Pio X è molto più attuale di quanto non si creda.

Divenuto sommo pontefice senza avere minimamente cercato l’elezione, in seguito alla nota vicenda del veto austriaco che sbarrò la strada al favorito della vigilia, il cardinale Rampolla, Pio X affrontò la guida della Chiesa con una libertà interiore che raramente si riscontra nella storia del papato ed esibendo una capacità di governo che nessuno immaginava. Totalmente sganciato da nostalgie temporaliste, diversamente dai suoi predecessori, soppresse subito il diritto di veto o ius exclusivae, cioè l’istituto giuridico tollerato dal diritto canonico che conferiva ai poteri politici la possibilità di condizionare i conclavi opponendosi all’elezione di cardinali sgraditi. Con ciò inflisse un colpo mortale all’alleanza trono-altare e sganciò la libertas Ecclesiae da ogni intralcio politico, seppellendo definitivamente l’ancien régime. Poi riformò radicalmente la Curia romana, che era ancora, nella sostanza, quella in vigore quando esisteva lo Stato pontificio. È questa la riforma che ridimensionò il ruolo della Segreteria di Stato. Quindi mise mano al rinnovamento dei quadri episcopali, dopo una

capillare ispezione alle diocesi italiane che mise in luce il preoccupante degrado, anche morale – in qualche caso addirittura impressionante – in cui versavano non poche strutture diocesane e allontanò dall’Urbe, rispedendoli alle diocesi d’origine, i tanti ecclesiastici che vi risiedevano senza averne titolo o motivo.

Collegato con questo intervento fu l’altro rivolto ai seminari, col quale ne ripensò l’organizzazione e i curricula di studi, resi simili a quelli delle scuole pubbliche, sia per rialzare il livello culturale del clero e non farlo sfigurare di fronte ai laici, sia per permettere a chi scopriva di non avere la vocazione di potersi reinserire nella vita civile. La sua battaglia per migliorare la moralità del ceto ecclesiastico, per dotare la Chiesa di sacerdoti ineccepibili, fu senza quartiere, tanto in Italia quanto negli altri continenti (per esempio in America Latina), con risultati che durarono a lungo nel tempo. In questa prospettiva vanno ricordate anche le sue perentorie direttive volte a tenere il clero fuori dagli affari, dal maneggio del denaro, dai consigli di amministrazione, sia pure di opere economiche ecclesiastiche. I sacerdoti dovevano stare lontani da tutto ciò che poteva costituire una tentazione o menomare la loro credibilità. Certe sue osservazioni al riguardo rimangono di una sorprendente modernità.

A coronamento di questo disegno riformatore impostò la revisione del diritto canonico con un’operazione che rappresentò una mobilitazione senza precedenti dell’intera struttura ecclesiastica.  Il Codex iuris canonici […] ricostruì l’identità giuridica della Chiesa e uniformò, universalizzandolo, il suo funzionamento. Con ciò il cattolicesimo archiviava definitivamente la frammentazione per chiese nazionali tipica del periodo prerivoluzionario e diventava una poderosa realtà unitaria, retta dovunque dalla medesima legge. Nacque con questa operazione, che per un quindicennio impegnò a fondo ogni diocesi di ciascuno dei cinque continenti (vescovi, seminari, facoltà teologiche, canonisti, giuristi), quella poderosa istituzione sovranazionale che è il cattolicesimo latino contemporaneo. Oggi vediamo i limiti della codificazione del diritto (l’irrigidimento, la clericalizzazione, la centralizzazione, la perdita di flessibilità) ma allora fu una straordinaria opera di modernizzazione, che allineò la Chiesa con le forme della statualità novecentesca e le permise, dopo la fine del potere temporale, di recuperare identità morale e autocoscienza giuridica, ponendosi di fronte agli Stati come

ente sovrano e pienamente autosufficiente. [….].

In questo disegno complessivo la repressione del modernismo […] non è episodio fine a se stesso ma appare funzionale ad un progetto molto più vasto di ricompattazione del cattolicesimo, ricompattazione cui era preliminare un controllo severo ed esigente dell’ortodossia dell’atto di fede. Si fraintende gravemente Pio X se si sottovaluta o si sminuisce la vicenda modernista. Ma lo si fraintende anche assolutizzando tale vicenda, vedendola isolata dal contesto delle riforme che caratterizzarono il suo governo. Riforma e condanna, promozione del rinnovamento e repressione del dissenso, non sono contrapposti ma complementari e interconnessi.

Sullo sfondo di questo poderoso lavoro di ricostruzione si inserirono le riforme liturgiche, catechistiche, eucaristiche, funzionali al progetto di riportare al centro della vita della Chiesa ciò che egli considerava prioritario a tutto: la salus animarum. Nella visione di Giuseppe Sarto, da quando divenne prete nel 1858 a quando spirò nel 1914, non venne mai meno la convinzione che la Chiesa esiste per portare le anime a Dio, non per affermare se stessa o per trionfare nel mondo. La Chiesa di Pio X apparteneva a Dio, non agli ecclesiastici, che dovevano tenersi alla larga dalle tentazioni mondane. Perciò la sua ecclesiologia, pur essendo inevitabilmente datata, verticistica, piramidale, lasciava ai laici spazi maggiori di quanto non si creda e non si dica.

Alla luce di tutto questo è davvero difficile continuare a vedere nel decennio di Pio X, assolutizzando la questione modernista, o isolandola dal contesto in cui sorse, soltanto un momento di reazione, di regresso e di scontro con il mondo moderno […]. Lo scenario che emerge dagli studi più recenti, come si vedrà nelle pagine che seguono, è diverso e per molte ragioni opposto. Il Papa veneto si

pose nei confronti della modernità in termini dialettici, con un uso «per certi aspetti spregiudicato di strumenti, regole, procedure di tipo moderno da porre al servizio della difesa esterna e della ricomposizione interna della Chiesa». Oscillando abilmente fra contrasto e apertura, opposizione e imitazione alla modernità, riuscì «a rendere più efficace la risposta ad essa della Chiesa Romana».

Non è un caso che proprio nel clima del suo pontificato si siano verificate in Italia e all’estero numerose conversioni al cattolicesimo, alcune accompagnate da grande clamore: da Jacques Maritain a Charles Péguy, da Ronald Knox a Gilbert Chesterton a Bruce Marshall, da Giovanni Papini ad Agostino Gemelli, da Federigo Tozzi a Giosuè Borsi a Domenico Giuliotti.

Ripensare perciò Pio X fuori dalle ideologie, dai pregiudizi e dalle nostre personali opinioni sulla Chiesa – su ciò che è, dovrebbe essere o vorremmo che fosse – non serve soltanto a capire il passato, ma contribuisce a comprendere meglio il presente. Mi sembra infatti incontestabile che il modello giuridico-istituzionale imposto da Pio X al cattolicesimo sia sopravvissuto per tutto il secolo scorso e sia giunto sino a noi, prevalendo su quello storico-evolutivo proposto dai modernisti.

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