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Perché (malgrado tutto) ha vinto Tucker Carlson
NEWS 10 Febbraio 2024    di Valerio Pece

Perché (malgrado tutto) ha vinto Tucker Carlson

Da una parte ci sono i media americani, veri o presunti “professionisti dell’informazione”, molto infastiditi dalla trasferta di Tucker Carlson a Mosca. Dall’altra il gradimento della gente per un’intervista a suo modo storica. Dov’è la verità?

LE BORDATE DEI GIORNALI USA

Salta all’occhio come i quotidiani americani abbiano dato dell’intervista di Carlson a Putin un giudizio compatto e tagliente. Qualche esempio. Il Washington Times scrive: «Il discorso ha offerto a Putin una rara piattaforma per descrivere il mondo dal punto di vista del Cremlino, e lui l’ha sfruttata al meglio». Sulla stessa linea il Washington Post: «Putin ha sfruttato questa opportunità per ritrarre la Russia come un paese che agisce per legittima difesa circondato dalla NATO e dalla CIA». Il Guardian rincara decisamente la dose: «L’intervista ha segnato un nuovo livello di vergogna per Carlson, che ha spesso criticato il sostegno degli Stati Uniti all’Ucraina e ha definito Zelenskyj un “magnaccia ucraino” e un “topo”». Mentre il commento del  Daily Mirror è totalmente tranchant: «Tutti coloro coinvolti nell’intervista di Tucker Carlson con Putin sono nemici degli Stati Uniti e dell’Occidente».

CARLSON NON È LA FALLACI

Carlson dal canto suo ha certamente commesso alcuni errori. Innanzitutto non è stato l’unico giornalista a chiedere un’intervista a Putin, come ha invece affermato, ma solo l’unico a cui il presidente russo l’ha concessa (è risaputo che ad almeno due giornalisti è stata chiusa la porta in faccia: Christiane Amanpour dell’emittente americana CNN e Steve Rosenberg, della britannica BBC). La differenza non è da poco. Il fatto poi di non aver ribattuto prontamente, durante il faccia a faccia, ad alcune discutibili esternazioni di Vladimir Putin, non ha deposto a favore del giornalista americano. Una su tutte lasciare senza un appunto la proposta di Putin di liberare Evan Gershkovich, corrispondente del Wall Street Journal da dieci mesi nelle carceri russe perché accusato di spionaggio, in cambio di quella di Vadim Krasikov, 007 russo condannato all’ergastolo dalla Germania per l’uccisione di un georgiano che aveva combattuto a fianco dei ribelli ceceni. Come scrive Carrer su Formiche, «un reporter non può valere un sicario».

Dunque, se Carlson non è Oriana Fallaci che si toglie il velo davanti all’ayatollah Khomeini, se intorno a quel piccolo tavolo del Cremlino il giornalista americano non è mai apparso troppo severo con l’intervistato, come mai dopo sole 18 ore dalla pubblicazione su X, l’intervista ha ricevuto oltre 850.000 like, è stata condivisa 270.000 volte, e soprattutto ha superato i 150 milioni di visualizzazioni?

L’INSEGNAMENTO DI JULIAN ASSANGE

Se non si vuol sposare esplicitamente l’idea del “popolo bue”, i commenti sui social – colorati o pacati che siano -, come un gigantesco sottinteso sottolineano la consapevolezza condivisa che una democrazia compiuta necessiti di un pluralismo e un’imparzialità che si considerano ormai svaniti. Più che una necessità, pare essere un grido collettivo. D’altro canto l’estenuante e dolorosa battaglia legale che coinvolge il giornalista Julian Assange, ideatore di uno strumento che consente a whistleblower e insider di fornire al pubblico informazioni altrimenti segrete, rappresenta sinteticamente e meglio di ogni altra cosa la tensione lacerante che esiste tra informazione e politica.

Già il fatto che Putin abbia risposto alle domande per due ore, per esempio, smentisce le notizie della stampa americana (anche autorevole) secondo cui il presidente russo sarebbe affetto da un tumore al cervello o da un disturbo mentale. La gente non solo non dimentica notizie come questa (per i media americani sono almeno tre anni che Melania Trump «sta contando i minuti» per divorziare dal marito) ma digerisce sempre meno il coro che non tollera stonature. La sola ipotesi, peraltro ancora circolante, che l’Unione europea possa poi comminare sanzioni a Carlson racconta plasticamente lo stato dell’arte del sistema informativo.

«DECIDETE DA CITTADINI, NON DA SCHIAVI»

Al momento del lancio dell’intervista il “traditore” Tucker Carlson aveva risposto all’isterismo mediatico difendendo la libertà di informazione. «La maggior parte degli americani», ha detto l’ex volto di Fox News, «non ha idea del perché Putin abbia invaso l’Ucraina o quali siano i suoi attuali obiettivi. Non hanno mai sentito la sua voce. Questo è sbagliato. Gli americani hanno il diritto di sapere tutto quello che possono rispetto ad una guerra in cui sono coinvolti». Carlson aveva poi concluso il lancio dell’intervista (preziosa non tanto per le cose dette quanto per il fatto di essere stata realizzata contro tutto e tutti) con queste parole: «Non vi stiamo incoraggiando ad essere d’accordo con quello che Putin potrebbe dire in questa intervista, ma vi invitiamo a guardarla. Dovreste saperne il più possibile e poi, in qualità di cittadini liberi, e non di schiavi, potrete decidere con la vostra testa».

L’OBBLIGO DEL DIALOGO

Se Putin non è né un Cavaliere senza macchia né il “Grande Satana”, in un conflitto dove l’escalation nucleare è dietro l’angolo, Carlson ha ricordato (a chi è riuscito perfino a escludere dalle Paraolimpiadi di Pechino gli atleti disabili non graditi) che è bene non trattare l’avversario da nemico. E che per disinnescare una catastrofe senza ritorno non è così sbagliato entrare nella logica altrui, per quanto assurda possa apparire ai più. Se a ciò poi si aggiunge, in un opposto paradigma di riferimento, il surreale tentativo del presidente degli Stati Uniti Joe Biden (aprile 2022) di istituire un “Consiglio per il controllo della disinformazione” al fine di prevenire fake news (il Disinformation Governance Board sul vecchio Twitter diventò virale con l’orwelliano hashtag “Ministero della Verità”), ecco spiegato come il coraggio, la trasparenza e perfino la risata grassa di Tucker Carlson abbiano vinto su tutti. Per distacco.

(Fonte foto: screenshot Tucker Carlson, YouTube)