Abbiamo visto al Teatro Carcano di Milano lo spettacolo Fra’. San Francesco la superstar del Medioevo, perché ci avevano detto che è splendido, profondo e divertente, tanto da riempire le sale come non ti immagineresti. Un passaparola di cui siamo grati, infatti abbiamo riso e ci siamo commossi insieme con il folto e variegato pubblico. Sì, vale la pena vedere questo “Francesco” di e con Giovanni Scifoni, scelto tra i persino troppi spettacoli programmati per gli 800 anni dall’invenzione del presepe da parte del Santo in assoluto più famoso del mondo. Che cos’ha di speciale questa rappresentazione teatrale, che dopo Milano proseguirà la sua tournée in Italia? L’autenticità e l’allegria di un attore che ha incontrato in profondità un personaggio carismatico e si è lasciato interrogare dalla sua vita (attinta alle fonti), cercando di trasportarla nel mondo di oggi senza tradirla. E senza tradire neppure se stesso. Perciò la chiave con cui l’effervescente interprete e scrittore dello spettacolo, Giovanni Scifoni (protagonista di diverse fiction e attualmente in onda nella popolare serie televisiva Doc-Nelle tue mani su Rai1) ci presenta il Poverello, è quella del giullare. Un giullare che salta e danza, ride e si tormenta e parla anche in francese, affascinando le folle perché, dopo aver goduto della ricchezza di famiglia e rincorso la gloria come cavaliere, si innamora di Dio, rinunciando a tutto con grande allegrezza.
I suoi monologhi, accompagnati da Laudi medievali e strumenti antichi, si alternano a considerazioni ironiche e mordaci sul nostro mondo, smascherato nelle sue ipocrisie e preda dei luoghi comuni o della banalità degli influencer che dettano la moda. “Perché – come riconosce l’attore-autore – lui parla di noi, non siamo noi che parliamo di Francesco”. Per esempio anche il Poverello ha sperimentato la tentazione del successo, dell’affermazione di sé che ci divora, lui che era una delle persone più famose del Medioevo e sapeva catturare l’immaginazione e ottenere il plauso delle folle. Ma alla fine della sua vita rinuncia alla guida dell’Ordine che aveva creato, e la lascia ad altri, dopo aver avuto quella grandiosa idea della povertà assoluta ed essere riuscito a farla riconoscere valida dal Papa. Geniale la scelta dell’attore di disegnare mentre è in scena, su un grande foglio appeso alla parete come sfondo, quello che dovrebbe essere il volto di Cristo e che lentamente, linea dopo linea, nel corso dello spettacolo si trasforma nell’immagine stessa di Francesco: è il tradimento dovuto all’ambizione, la smania di imporre il proprio ego. Allora strappa letteralmente quel ritratto di sé che quasi pretendeva di sostituirsi a Dio. Ma Francesco in realtà anela ancora ad ascoltare la Parola di Dio che, alla fine della sua esistenza terrena, gli dona un segno grandioso della sua Presenza, di cui il Santo si sente indegno: le stigmate.
In tutto lo spettacolo alle riflessioni profonde si alternano le risate, perché San Francesco voleva che non vincesse la tristezza attorno a lui. Anche i suoi frati ridevano, persino quando erano presi a bastonate. Così anche noi spettatori ci lasciamo andare al sorriso, riconoscendo le nostre miserie, la nostra fragilità tanto simile a quella di frate Rufino ossessionato dal naso troppo grosso e timoroso di predicare. Vediamo i nostri limiti personali e quelli della stessa Chiesa, allora come oggi. Capiamo che Innocenzo III potesse essere alla ricerca di qualcuno, che riscattasse il popolo di Dio dalle tentazioni del lusso e della carne, che avevano portato i Catari a diventare eretici pur di denunciare i peccati e i peccatori della Chiesa. Francesco, invece, obbedisce al Papa persino quando lui gli dice di predicare ai porci: lo fa davvero, convincendo così il pontefice della autenticità della sua vocazione e missione.
Dunque il Francesco presentato da Scifoni non è affatto banale e neppure à la page, ma è assolutamente irresistibile. Il suo fascino non è tanto la scelta della povertà, che nella sua epoca non era poi così peregrina, visto che non mancavano santi ed eretici che avevano intrapreso la stessa strada. Che cosa aveva allora di speciale il Poverello? “Aveva di speciale che era un artista, forse il più grande della storia. Le sue prediche erano capolavori folli e visionari. Sapeva far ridere, piangere, sapeva cantare, ballare”. Capiamo perché il nostro attore ne sia rimasto affascinato e abbia voluto calarsi anche lui nei panni del giullare. Ma non senza avvicinarsi e avvicinarci anche al momento finale dell’incontro con Dio, attraverso “sora nostra morte corporale, da la quale nullu homo vivente pò scappare”. Perché è l’incontro con Dio il vero desiderio del nostro cuore. Ringraziamo Scifoni per avercelo ricordato con leggerezza, ma non senza sincera commozione e amore alla verità. (Foto Chiara Pajetta)
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