di Riccardo Cascioli
La foto dei frati francescani di Boston che partecipano sorridenti al cittadino festival gay con un loro stand davanti a cui campeggia in colori arcobaleno la scritta «Chi sono io per giudicare?», vale più di mille articoli e trattati. Dice soprattutto a quale tremendo equivoco abbiano dato origine le parole che papa Francesco ha pronunciato il 29 luglio 2013 parlando con i giornalisti sull’aereo di ritorno dal viaggio in Brasile.
È senz’altro paradossale che un Papa a cui tutti riconoscono il carisma della semplicità e dell’immediatezza, dell’arrivare dritto al cuore, sia poi anche quello che faccia accendere dure dispute senza precedenti sull’interpretazione di ciò che dice e – a volte – di ciò che pensa. Da questo punto di vista senz’altro la frase «Chi sono io per giudicare?» è il simbolo di questo pontificato. Non c’è giorno che da qualche punto del mondo non ci sia qualcuno che usi questa frase, sempre per giustificare comportamenti in contrasto con la morale cattolica, e soprattutto riguardo all'omosessualità. Dai media di tutto il mondo quella frase fu subito interpretata come «l’apertura della Chiesa ai gay», ma soprattutto all’interno della Chiesa è stato un fiorire di iniziative pro-gay, che trovano la dimostrazione nell’aumento esponenziale di parrocchie in tutta Italia che organizzano veglie nella giornata contro l’omofobia, in maggio (quest’anno sono state coinvolte oltre venti città).
Non solo, alla viglia del prossimo Sinodo sulla Famiglia (5-19 ottobre) i gruppi gay cattolici si troveranno a Roma il 3 ottobre per “Le strade dell’amore”, una conferenza internazionale «per una pastorale con le persone omosessuali e transessuali». Il motivo, secondo gli organizzatori, è che «non si può parlare di famiglia senza parlare di tutte le famiglie, incluse quelle che hanno dovuto, che devono e che dovranno confrontarsi con l’omosessualità». Per sostenere questa posizione saranno presenti monsignor Geoffrey Robinson, «già vescovo ausiliare di Sydney, che si chiederà come la Chiesa cattolica può incamminarsi verso una nuova comprensione delle vite e degli amori delle persone LGBT»; padre James Alison, «teologo e sacerdote cattolico inglese che ha operato molto in Sud America e che ha dedicato alcune pubblicazioni al rapporto tra coscienza cattolica e coscienza gay, che spiegherà come omosessuali e transessuali possono diventare i protagonisti di una nuova evangelizzazione più inclusiva e capace di accogliere tutte le diversità e di liberarle dal clima di oppressione e di discriminazione che si respira in molte parti del mondo»; la teologa e suora domenicana Antonietta Potente, «che proporrà alcuni spunti per arrivare finalmente a un nuovo approccio, più inclusivo, quando si parla di evangelizzazione delle persone LGBT». E questo solo per restare tra i cattolici.
E ancora: la rivista teologica internazionale Concilium, fondata tra gli altri da Karl Rahner e punto di riferimento di gran parte dei teologi nel mondo, dedica l’ultimo numero (2/2014) a «“Dall’Anathema sit” al “Chi sono io per giudicare?”» (clicca qui), in cui si teorizza il superamento dell’ortodossia o, se volete, si afferma il relativismo teologico e dottrinale.
Si potrebbe continuare a lungo, ma questo è già sufficiente per capire che la partecipazione al Gay Pride dei francescani di Boston – che peraltro affermano di avere il pieno sostegno dell’arcidiocesi, retta dal cardinale Sean O’Malley – non è affatto un episodio isolato o legato a frange fuori controllo di alcuni ordini religiosi. Lo dimostra anche il fatto che sempre a Boston nella chiesa di Santa Cecilia si tengono regolarmente “Messe arcobaleno” per la comunità gay e quando c’è stato l’intervento pubblico di un noto attivista pro-life che ha preso posizione contro questa deriva, il settimanale diocesano “The Pilot” ha pubblicato numerosi interventi di preti e diaconi che censuravano pesantemente il povero pro-life.
Tutto questo mette però in risalto un fattore: l’apertura della Chiesa ai gay non è tanto nelle parole del Papa quanto nelle intenzioni di chi lo ascolta e usa il modo informale del Papa di parlare per promuovere i propri disegni. È infatti evidente che questa realtà di magistero parallelo esiste già da molti anni, ha lavorato sottotraccia dopo il Concilio Vaticano II conquistando silenziosamente seminari e pontificie università una dopo l’altra. Negli anni di san Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI, a loro sfavorevoli dal punto di vista teologico e pastorale, hanno continuato a lavorare e crescere – e la lobby gay ha anche conquistato posizioni di potere nella Chiesa – e oggi, pensando di avere il Papa dalla loro, escono allo scoperto convinti di poter cambiare finalmente la dottrina della Chiesa. E il prossimo Sinodo sulla famiglia sarà senz'altro il primo banco di prova.
Se però stiamo a ciò che il Papa ha veramente detto in più di una occasione questi calcoli potrebbero essere decisamente sbagliati. Già nella famosa battuta sull’aereo il significato del “Chi sono io per giudicare?” era chiaramente diverso da come è stato interpretato e viene continuamente riproposto. Come si ricorderà il Papa stava rispondendo a una domanda sulla lobby gay in Vaticano e, dopo aver affermato che nessuno gli aveva mai dato una carta d’identità da gay in Vaticano, disse: «Se una persona è gay e cerca il Signore e ha buona volontà chi sono io per giudicarla? Il catechismo della Chiesa cattolica dice che queste persone non devono essere discriminate ma accolte. Il problema non è avere queste tendenze, sono fratelli, il problema è fare lobby».
L’affermazione non era la giustificazione del relativismo morale o dell’indifferenza davanti al peccato – sennò non insisterebbe così tanto sulla Confessione – ma il riconoscimento che tutti siamo peccatori e bisognosi di perdono. Un concetto che ha chiarito meglio pochi mesi fa, lo scorso 17 marzo, durante l’omelia a Santa Marta, ricordando l'esortazione di Gesù "Siate misericordiosi come il Padre vostro è misericordioso". Nell’occasione papa Francesco ha insistito molto sul fatto che «noi siamo tutti peccatori», e proprio sperimentare la Misericordia del Signore su di noi ci rende misericordiosi. Non è dunque l’abolizione del peccato, invocata da Eugenio Scalfari; al contrario è proprio una coscienza più acuta del peccato che spinge a “non giudicare” le persone: “Se cercano il Signore e hanno buona volontà”, come disse ai giornalisti sull’aereo, cioè se riconoscono il proprio peccato e cercano la misericordia di Dio.
Non è certo il caso dei francescani di Boston o dei teologi di Concilium e di tanti altri che invece rivendicano con orgoglio il proprio peccato e pretendono che venga apprezzato come una virtù, così che il “Chi sono io per giudicare?” diventa un “libera tutti” morale.
Resta però il paradosso di un Papa così comunicativo, così diretto e allo stesso tempo così facilmente manipolato nel riportare i suoi interventi. Un problema di comunicazione che in Vaticano dovrebbe quanto meno essere preso in considerazione.
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