di Mattia Ferraresi
“Il matrimonio non è più visto come una realtà indipendente, nuova, che trascende l’individualità degli sposi, una realtà che, come minimo, non può essere sciolta dalla volontà di un solo partner. Ma può essere dissolta dal consenso di entrambe le parti, o dalla volontà di un sinodo o di un Papa? La risposta deve essere no”. Il filosofo tedesco Robert Spaemann, autorità nel mondo cattolico tenuta in altissima considerazione, fra gli altri, dal conterraneo Benedetto XVI, sul mensile americano First Things ha scritto una potente requisitoria delle aperture alla concezione mondana del matrimonio che si stanno facendo largo – e non da oggi – anche all’interno della chiesa, specialmente in vista del Sinodo straordinario sulla famiglia indetto da Francesco. Seconde nozze, nullità, accesso ai sacramenti per i risposati sono le appendici legali, le incarnazioni storiche del problema matrimoniale in un mondo dove i cattolici divorziano poco meno dei non cattolici, dicono le statistiche.
Il dilemma è se la chiesa debba curvarsi sul paradigma della contemporaneità in fatto di unioni affettive, fino al punto di vidimare religiosamente gli umori prevalenti, magari nel nome della misericordia. Spaemann legge in questo conflitto il riproporsi dell’eterna tensione fra la chiesa e il mondo, iniziata quando gli apostoli rimangono scioccati dalle parole del Maestro: “Non sarebbe meglio, allora, non sposarsi affatto? Il loro stupore sottolinea il contrasto fra il modo di vita cristiano e il modo di vita dominante nel mondo. Che lo voglia o no, la chiesa in occidente sta diventando una controcultura, e il suo futuro dipende eminentemente dalla sua capacità di mantenere il suo ‘sapore’ o di essere sottomessa dagli uomini”.
Si tratta della scelta fra rimanere il sale della terra o trasformarsi in uno zuccheroso stipulatore di compromessi con la logica mondana. Se la chiesa si trova di fronte a questo dilemma e tentata da più parti dall’opzione dell’annacquamento del suo insegnamento è anche colpa della chiesa stessa, dice Spaemann: “Invece di rinforzare la naturale, intuitiva attrattiva della stabilità matrimoniale, molti uomini di chiesa, inclusi vescovi e cardinali, preferiscono raccomandare, o almeno considerare, un’altra opzione, alternativa agli insegnamenti di Gesù, in pratica una capitolazione al mainstream secolarizzato. Il rimedio all’adulterio implicito nel ri-matrimonio, ci dicono, non è più la contrizione, la rinuncia, e il perdono, ma il passare del tempo e l’abitudine, come se l’accettazione sociale e il nostro personale senso di appagatezza con le nostre decisioni avesse un potere soprannaturale. Questa alchimia dovrebbe trasformare un concubinaggio adultero, il secondo matrimonio, in un’unione accettabile da benedire nel nome di Dio. Secondo questa logica, chiaramente, è come minimo giusto da parte della chiesa benedire le unioni omosessuali”.
Questa concezione discende da un errore nella concezione del tempo, scrive Spaemann, che “non è creativo”. Il tempo non aggiusta le cose, “il suo passaggio non restaura uno stato d’innocenza. La tendenza è sempre quella opposta, di accrescere l’entropia. Non dobbiamo confondere la graduale perdita del senso del peccato con la sua scomparsa e dunque sollevarci dalle nostre responsabilità”. Per Spaemann il secondo matrimonio è un tradimento dell’insegnamento cattolico, senza appello, accettato o considerato come ipoteticamente legittimo in nome del cambiamento delle abitudini che ha permeato il mondo e ora bussa con decisione alla porta della chiesa. Il matrimonio indissolubile è ormai percepito come “meta impossibile”, si legge nell’“Instrumentum Laboris” del Sinodo. Secondo Spaemann la chiesa ora è chiamata a decidere se vuole accarezzare o combattere questa percezione.
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