«A pranzo con Wojtyla e Lejeune vidi la storia e la mano di Dio»
Il 2 aprile 2005, vent'anni fa, moriva Giovanni Paolo II. Un Papa che ha segnato non solo la storia della Chiesa. Lo ricordiamo con il racconto esclusivo di Alberto Michelini, volto noto del Tg1, che il 13 maggio 1981 sedette a tavola con Giovanni Paolo II e il professore scopritore della sindrome di Down. Cosa si dissero? Poche ore dopo il papa polacco sarebbe stato vittima dell’attentato di Alì Agca
La Domenica 17 maggio del 1981 si sarebbe votato in Italia per il referendum sull’aborto. Quale migliore occasione per invitare a Roma, il martedì 12, il professor Jérôme Lejeune, il grande genetista della Sorbona, scopritore del 47imo cromosoma causa della sindrome di Down, autorevolissimo testimone della vita, per tenere a Roma una conferenza stampa sul tema della vita?
Ero legato al professore da affetto e amicizia da quando, negli anni Ottanta, lo avevo incontrato a Parigi in un convegno sulla famiglia voluto da Madre Teresa di Calcutta, cui ne sarebbero seguiti parecchi altri in giro per il mondo, ai quali avrei poi partecipato assieme a Lejeune e a tanti altri amici impegnati a difendere l’istituzione famigliare, già allora duramente attaccata dai nemici della vita, fin dal concepimento.
Da allora, quando veniva a Roma per le riunioni dell’Accademia Pontificia delle Scienze, il professor Lejeune con la moglie Birthe, di origine danese, erano ospiti fissi a cena da noi, con mia moglie Birgit, anch’essa danese da parte di madre e di padre tedesco.
Il professore accettò il mio invito con entusiasmo, e nello stesso tempo mi chiese il favore di fargli da tramite per un incontro con Papa Wojtyla, il quale peraltro aveva una grande predilezione per Lejeune. Avvisai il suo segretario, don Stanislao Dziwisz, dell’evento che stavo organizzando e del desiderio del professore. La mattina del 13, alle 10,30, evidentemente dopo averne parlato con il Papa, mi richiama dicendomi: «Venite a pranzo». Nacque così quell’occasione che si sarebbe rivelata molto speciale, per molti motivi.
A tavola per la vita
Alle 13,30 di martedì 13 maggio, il giorno della prima apparizione della Vergine Maria a Fatima nel 1917, dopo il saluto affettuoso del Papa al professore e alla moglie Birthe, ci sediamo noi tre di fronte al Santo Padre, con don Stanislao e l’altro segretario ai lati del tavolo. Come di consueto, il Papa apre la conversazione su un tema che gli sta particolarmente a cuore, e in quel caso su ciò che più lo aveva colpito nel grande dibattito che si era aperto in quei giorni sull’aborto, compreso il fatto che l’allora Segretario del Partito Socialista, Bettino Craxi, aveva parlato degli «occhiali polacchi di Papa Wojtyla». Ma a questo tipo di attacchi non dava alcun peso; ciò che invece lo aveva più amareggiato era stato il silenzio dell’episcopato italiano sul fatto che la Corte Costituzionale avesse bocciato il quesito referendario più favorevole alla vita. Per il giovane Arcivescovo di Cracovia, che aveva lottato tenacemente contro le decisioni ostili alla Chiesa da parte del Partito Comunista polacco, era sorprendente che nessuno dei presuli italiani avesse preso posizione su quella decisione. La conversazione passò poi alla situazione della Chiesa in Francia, sulla quale Jérôme Lejeune si soffermò raccontando episodi a lui ostili non solo da parte del mondo politico, ma anche da parte di esponenti di quello ecclesiale.
Il pranzo andò oltre le consuetudini: in genere dopo un’ora il Papa congedava gli ospiti e si ritirava, ma quel giorno si concluse attorno alle 15,30. I Lejeune andarono direttamente all’aeroporto per rientrare a Parigi mentre io, non di turno al TG1, andai nella sede della scuola che avevamo fondato con altri genitori, in via Cortina d’Ampezzo, per convincere, come presidente della cooperativa, alcune mamme a iscrivere i loro figli.
Un pomeriggio di paura
Erano ormai le 17,30 quando una nostra amica, sapendo che ero nella sede della scuola, mi chiamò per avvisarmi dell’attentato al Papa da parte del terrorista turco, Alí Agca. Mentre i suoi bambini vedevano i cartoni animati, le trasmissioni vennero interrotte da un’edizione straordinaria del TG con Massimo Valentini che parlava dell’attentato. Le dissi che non era possibile, che lo avevo lasciato due ore prima nel suo appartamento e che era assurdo pensare che gli avessero sparato nel Palazzo Apostolico. «No - mi disse con il cuore in gola - sulla piazza, durante l’udienza!». Solo allora mi ricordai che quel giorno, l’udienza generale su piazza San Pietro era stata spostata al pomeriggio, alle 17, per il caldo particolarmente intenso in quel mese di maggio.
Corsi in macchina da via Cortina d’Ampezzo a via Teulada con un pensiero dominante: il mondo non poteva essere privato della persona di Papa Wojtyla: il primo Papa slavo della storia, il Papa dalla profonda pietà mariana al punto di volere sul suo stemma la “M” sotto la Croce, il Papa che, nel giorno dell’«Intronizzazione», il 22 ottobre 1978, aveva chiesto al mondo di «non avere paura» e di «spalancare le porte a Cristo», il Papa che aveva dedicato a Cristo la sua prima Enciclica, La Redemptor hominis, nella quale definiva Cristo «Centro del cosmo e della storia».
Lo avevo seguito, non da vaticanista ma da inviato, fin dal primo viaggio in Messico, nel gennaio del ‘79, tre mesi dopo l’elezione, e poi in Polonia, nel giugno dello stesso anno, un viaggio straordinario, che avrebbe innescato quel meccanismo virtuoso e provvidenziale che avrebbe portato, dieci anni più tardi, in modo sorprendentemente pacifico, dal Baltico al Mar Nero, nel novembre del 1989, al crollo del Muro di Berlino, e al dissolversi di quelle che avrebbe definito “le tragiche utopie”. “Il marxismo - avrebbe scritto Giovanni Paolo II nella sua terza Enciclica sociale, la “Centesimus Annus”, del 1991 - aveva promesso di sradicare il bisogno di Cristo dal cuore dell’uomo, ma i risultati hanno dimostrato che non è possibile riuscirci senza sconvolgere il cuore”.
Al Gemelli
Mentre correvo da via Teulada al Policlinico Gemelli questi pensieri si affollavano nella mia mente e risuonava dentro di me, dominante, l’idea che il mondo non poteva essere privato di questo grande Papa, non tradizionalista, come qualcuno aveva insinuato, ma un Papa di prima della tradizione, della stirpe dei primi apostoli, che - come aveva detto un’altro grande francese, amico di Lejeune, lo scrittore André Frossard - sembrava aver appena lasciato le reti sulle rive di un lago e che arrivasse direttamente dalla Galilea, sulle orme dell’apostolo Pietro.
Arrivo trafelato al Gemelli pochi minuti dopo che il Papa era stato portato in sala operatoria. In una sala contigua chiedo a don Stanislao: «Dove?», lui mi indica l’addome e mi dice di non dirlo a nessuno. Un cardinale, non ricordo chi fosse, stava recitando il Rosario. In ospedale avevano perso tempo portando il Papa, sempre lucido e molto sofferente, ma senza più sangue, al decimo piano.
Il Cielo ha voluto che il professor Crucitti, avvisato dalla suore della clinica Pio XI dove stava visitando, accorresse in sala operatoria al Gemelli, salvandolo. Papa Wojtyla gli fu sempre grato, tanto che quando Francesco Crucitti morì, prematuramente, il 26 agosto del 1998, il Papa volle andare a casa del Professore per rendere omaggio alla salma. Mi ha raccontato suo figlio, Pierfilippo, bravissimo chirurgo al Campus Biomedico di Roma, che il Santo Padre arrivò in casa alle tre del pomeriggio e, per baciare sulla fronte il professore - la cui salma era stata collocata al centro del letto matrimoniale - montasse sul letto con le ginocchia per rendere omaggio al suo “salvatore” baciandolo e pregando per la sua anima.
Incrocio di storie
Tornando al 13 maggio, ho saputo la sera da Birthe Lejeune che, appena arrivati a Parigi, erano stati informati dal tassista dell’attentato al Papa ed era stata tale l’emozione che il professor Lejeune si sentì male al punto di essere ricoverato in ospedale la stessa sera. Il grande genetista sarebbe poi stato nominato, nel 1994, primo Presidente della Pontificia Accademia per la Vita, organismo fortemente voluto da Karol Wojtyla, il quale aveva dedicato al tema della famiglia e della vita la sua prima Esortazione Apostolica, “Familiaris Consortio”, del 22 novembre 1981.
Era tale l’amicizia e la considerazione che Papa Wojtyla aveva per Jérôme Lejeune, morto a 68 anni nel 1994, che quando si recò in Francia per la GMG del 1997, volle, fuori programma e contro il parere delle autorità francesi, andare a rendere omaggio alla salma del suo amico Jerome, recandosi nel piccolo cimitero fuori Parigi, dove era sepolto.
Mentre, non senza emozione, scrivo questi ricordi devo costatare quanto fosse vera l’espressione di san Josemaría Escrivá: «Queste crisi mondiali sono crisi di santi». Il Fondatore dell’Opus Dei era molto legato a san Giovanni Paolo II, che a sua volta era grande estimatore di Santa Teresa di Calcutta, che ho avuto il piacere di conoscere e di incontrare più volte; futuro santo anche il Professor Lejeune, di cui è stata aperta la causa di beatificazione, e che san Josemaría, negli Anni Settanta, volle facesse parte del Consiglio Direttivo dell’Università di Navarra, a Pamplona.
Nel Decreto sulle virtù, si dice che il professor Lejeune, nonostante le pressioni e le misure ritorsive contro di lui, viaggiasse in tutto il mondo per testimoniare la bellezza e la dignità inviolabile della vita umana davanti ai Parlamenti, alle assemblee degli scienziati e ai mass-media. Quanto alla pratica eroica della virtù della carità - è scritto nel Decreto delle Cause dei Santi, e chi lo ha conosciuto lo può testimoniare - come «visse alla presenza del Signore, perché Gesù, Verbo Incarnato, occupava il primo posto nella sua vita. In lui l’amore di Cristo e l’amore dei fratelli, soprattutto dei suoi pazienti, erano praticamente un’unica cosa, perché nei bisognosi e nei malati egli riconosceva l’immagine divina. Esercitò la carità in modo costante, gioioso e di grado non comune, in ogni ambito della sua vita: in famiglia, nell’ambiente professionale, nella Chiesa».
(Foto Alberto Michelini e Giovanni Paolo II, 1978 - credit Alberto Michelini)