«Il politicamente corretto snatura la realtà». Enrico Beruschi e la sua storia
Guareschi come lettura fondamentale, la prima vita da ragioniere e poi l’inizio sul palco del Derby di Milano, fino alla Rai con No stop e Mediaset con Drive in. «Ma a messa bisogna andare!», lo show man si racconta in esclusiva al Timone
Enrico Beruschi non ha bisogno di presentazioni – essendo un comico arcinoto –: dai modi affabili, generoso, simpatico oltremisura, ha la battuta sempre in canna. Conoscendolo da vicino ho scoperto che è un grande appassionato della sua Milano e di uno dei suoi scrittori più illustri, Alessandro Manzoni: «Sì, e l’altra mia passione sono invece le letture di Guareschi. Al Meeting di Rimini mi pare sia la settima od ottava volta che le propongo. Giovannino Guareschi, insomma, per me è proprio importante. Ho detto più volte che chi vuole fare il comico dovrebbe prima leggere i testi di Giovannino». Chiedo subito cos’è la comicità visto l’amore per uno dei più grandi umoristi di sempre: «Ecco – mi viene risposto –, cosa sia di preciso non lo so, ma papa Francesco in un incontro bellissimo con i comici di tutto il mondo ha detto che siamo preziosi perché riusciamo a strappare un sorriso. Ed è quello che ho cercato di fare nella mia carriera. Nell’ambiente sono un oggetto un po’ strano, non ho mai sgomitato, ho sempre aiutato se possibile e sono stato fortunato!».
Enrico mi racconta nel dettaglio l’Udienza del Santo Padre e mi dà il “la” per domandargli se oggi sia ancora possibile essere comici cristiani: «Sì, decisamente sì! Nonostante ci sia la piaga del politically correct, dove i principi cristiani non sempre collimano con quello che vuole la “minoranza gridante”. A essere sincero il politicamente corretto lo detesto abbastanza, perché snatura la realtà. Se dici che una cosa è nera, è l’italiano! Un esempio: è capitato che in una cena con amici di colore mia mamma dicesse a uno: “Che bel negretto!”. E non è un insulto, è una definizione come un’altra, ma in questo caso era anche un appellativo affettuoso (ed è così che era stato recepito dall’ospite!). Purtroppo, esiste una specie di dittatura del politicamente corretto, dittatura perché non si estende a tutto, ma solo ad alcune cose, che – ormai – sono quelle imposte!».
Nella Postfazione al mio libro Dalle lettere di don Augusto. Come rimanere cattolici nonostante tutto(Ares), Enrico ha scritto che si deve fare «il possibile per essere buoni cristiani e cattolici». Lo pungolo: voglio sapere quanto ha inciso la fede nella sua vita. Mi risponde pronto: «Eh beh, ha inciso e continua a incidere. Per esempio, quando sono via per lavoro chiedo sempre l’orario della Messa del sabato o della domenica… insomma a Messa bisogna andare! Cerco di testimoniare nel mio piccolo, ma non sono un santo!». Rilancio: chi è Beruschi? «Enrico diventa ragioniere nel Sessanta: cosa sogna una mamma di un giovane diplomato in quegli anni se non che sia assunto in banca? Avevo ricevuto trentaquattro offerte di lavoro… pensa un po’ che differenza rispetto a oggi! Tra queste la proposta di due banche con sede a Milano: la Banca Commerciale Italiana e il Credito Italiano. Ho scelto quest’ultima, perché mi dava quindici giorni in più di vacanza! Giocherellone fin dall’inizio… Ho lavorato lì per due anni, poi – nonostante mia madre piangente – sono passato al ramo del tessile, dove mi sono appassionato della parte commerciale e nel mentre ho fatto quindici mesi di militare. Dismessi i panni del soldato, per non stare con le mani in mano ho fatto la vendita porta a porta di enciclopedie: ero accolto bene, ma mi sono accorto di non avere la stoffa del venditore, perché mi mancava la “cattiveria” nella chiusura, cioè non riuscivo a chiudere i contratti. Decisi, così, di farmi aiutare da un mio amico: io ero bravo a comunicare e lui possedeva la cattiveria di cui sopra. Ci avevano persino promossi, ma casualmente mi arrivò un’altra occasione. La Galbusera Biscotti cercava un giovane capufficio. Mi sono presentato e ho bruciato tutti gli altri, con grande dispiacere dell’impiegata più giovane, assai carina, che si era soffiata il naso pur di non stringermi la mano. Poverina, aveva visto sfilare tanti bellimbusti ed ero stato scelto io! Avevo ventisei anni – siamo nel ’67 – e vi rimasi per sette. Ah, la giovane impiegata carina è diventata mia moglie!».
Arriviamo al 1972, dove al ragioniere più famoso d’Italia viene affidato l’incarico di riunire l’aspetto amministrativo con quello commerciale per meccanizzare l’azienda: «Un lavoro complesso: ricevetti una gratifica, ma non l’aumento e ci rimasi male. Un giorno vado a trovare la morosa – sempre quella che è mia moglie e che ho sposato nel ’74 – e mi fermo al Derby, essendo un cliente affezionato perché amo il cabaret e mi piaceva vedere i miei vecchi compagni di scuola Cochi e Renato esibirsi. Siccome avevo la fama di essere un bravo barzellettiere, appena entro quella sera mi viene incontro Walter Valdi, l’anima artistica del locale, e mi chiede di esibirmi. Morale: ho debuttato con tre barzellette, tutti applaudivano, si divertivano. Così sono andato avanti a farlo per molte serate: entravo, salutavo, in genere tentavo di scappare presto perché alla mattina avevo la sveglia alle sette. E così è cominciata l’avventura. Ero contento, ma pure in crisi, perché – siamo nel settembre del ’74 – ero ormai Vicedirettore commerciale e non potevo dividermi in due vite. Caso vuole che ricevetti e accettai anche una proposta della RAI, ma capendo che non era consono al mio ruolo in ufficio fare il comico detti le dimissioni. Il programma, però, saltò, ma ormai avevo firmato il contratto: mi misi d’impegno per migliorare e per diventare un professionista».
Se il primo grande salto avviene grazie a una trasmissione per bambini – Qua la zampa sempre della RAI – la vera svolta si realizza con un altro programma: «Sì. Avevano convocato diversi comici per Il Bagaglino, tra cui il sottoscritto. Mi arrivano due notizie in contemporanea: una dice che non mi hanno preso, perché hanno preferito Teo Teocoli, che infatti è più bravo di me. Seconda – clamorosa! – sono stato scelto per No Stop, che in quel momento era una creatura di Pippo Baudo, ma con la pazzia di Bruno Voglino, giovane funzionario non ancora facente funzioni di capostruttura. L’idea era di realizzare un programma dedicato ai nuovi talenti, quindi fatto da giovani… io ovviamente ero il più vecchio! Baudo, però, venne richiesto altrove e se n’è andato portandosi via il regista: questa che sembra una sfortuna è stata una fortuna clamorosa! Era, infatti, il primo programma senza manovratore (non c’era il presentatore), e fu un successo strepitoso, partendo subito forte! Ricordo che ci venne a vedere Mike Bongiorno che rimase molto colpito. Del resto, No stop è stato un cambio di passo per il varietà in RAI (e non solo). Per me è stato il trampolino di lancio: con me c’erano I Gatti di Vicolo Miracoli, La Smorfia, Boris Makaresko e tanti altri». Interrompo volendo sapere qualche aneddoto curioso: «Vediamo… nel primo indice di gradimento io quasi non figurai, mentre La Smorfia andò oltre il 100. Non ci rimasi male (sono sempre felice del successo dei colleghi), ma poi capii che avevano fatto il sondaggio senza le fotografie (cioè coi nomi soltanto) e molta gente era convinta fossi io il personaggio de La Smorfia, perché ho la bocca storta, è una mia particolarità (ma non sono mai stato complessato, anzi ne ho fatto un punto di forza), e quando dico “allora”, “urca” o altre cose faccio appunto una smorfia. Quando hanno rifatto il sondaggio con le foto sono risultato in testa io. L’indice di gradimento della trasmissione è stato così monopolizzatoda me insieme a Massimo Troisi, Enzo De Caro e Lello Arena e i Gatti».
Poi il passaggio alla Mediaset dell’epoca: «Sì,una sera andai a vedere a Milano Liza Minelli e mi sentii chiamare: era il Silvio – Silvio Berlusconi s’intende –, il quale mi dice: “Hai visto che ho fatto la televisione sul serio? Cosa aspetti a venire anche tu?”. Il giorno dopo avevo preso contatti e con il 1983 è partito il mio contratto. Tre matti – ovvero Antonio Ricci, Giancarlo Nicotra ed Enrico Beruschi – si trovano a Milano 2 e cominciano a pensare a un programma: Drive In. Altro successo incredibile». Intuisco che ha cambiato un po’ il modo di fare televisione: «Se No Stop è il seme – precisa subito Enrico con quel suo tono avvolgente –, Drive In è la pianta, dove sono maturate la visione, lo sketch veloce, le battute fulminee, tante cose… C’erano belle donne, ma nessuna volgarità». Cerco di scoprire quali erano gli ingredienti della televisione che ha vissuto: «Il gioco, l’allegria, lavorare moltissimo. Il primo Drive In si finiva di registrare quasi a sera e si andava tutti insieme a cena per parlare ancora di lavoro! Mi presentavo anche al montaggio, pur non essendo il mio compito, ma mi divertiva partecipare. La gioia dello stare assieme, d’inventare, di migliorare mi pare manchi un po’ adesso. Faccio ancor oggi delle osservazioni se capita, forse grazie all’esperienza degli anni d’ufficio che mi hanno abituato a controllare che tutto funzioni. Molti colleghi m’invitano per un giudizio e dicono: “Perché l’Enrico è una vecchia pantegana e magari…”. Per esempio mi sono cimentato nella lirica, dove mi piace aiutare i cantanti, soprattutto quelli giovani: loro hanno il segreto delle note che io non possiedo, ma in cambio suggerisco loro come usare l’espressione, la faccia, la postura». Anche l’opera? «Sì – ride –! Ho fatto delle regie di opere e operette e in un paio mi sono messo in scena con delle particine piccole perché non sono un cantante. Portare sul palcoscenico pezzi famosi con delle contestualizzazioni venticinque anni fa era una novità, imparata da Massimo Scaglione. Il minimo è un pianoforte, tre o quattro cantanti e io che racconto la vicenda, così che si capisca perché uno dice gelida manina o vecchia zimarra».
Fin da subito, però, c’è stato anche il teatro: «In fondo, ho fatto poca televisione, solo per quindici anni dal 1977, poi qualcosa per gli amici, come Striscia la notizia, anche perché sono un ammiratore di Antonio Ricci, veramente un grande nel suo compito di autore, brillante come pochi, direi quasi nessuno. Mentre dal ’79 mi sono dato al teatro, partecipando a L’angelo azzurro di Amendola e Corbucci con la regia di Vito Molinari, insieme a Minnie Minoprio e Margherita Fumero (che poi diventerà il prototipo della moglie del povero Beruschi e a cui sono ancora legato)». A proposito di famiglia “reale”, quanto conta? «La famiglia è importante. Ho imparato a leggere sul Candido! Prima di andare a scuola sapevo già scrivere. Trattengo in me ancora gli insegnamenti del papà e il ricordo della mamma».
In quegli anni hai anche cantato e sei è arrivato quinto a Sanremo nel ’79: «Sì, ma non mi accorsi neanche, non sapevo bene quello che mi stava succedendo! Mi aveva coinvolto Mario Panzeri, uno degli autori del mio brano Sarà un fiore (che tra l’altro contiene un piccolo doppio senso) e mi sono buttato… e alla prima votazione sono risultato tra quelli destinati al podio e la cosa mi stupì! Sentivo poi in giro cantare la canzone e rimasi felice di quell’esperienza».
Nel lungo curriculum è presente pure il cinema con partecipazioni anche a film impegnati, come C’eravamo tanto amati di Ettore Scola (1974), Oh, Serafina! di Alberto Lattuada (1976) e un cameo in Dante di Pupi Avati (2022). Una pellicola importante fu Un borghese piccolo piccolo: «Mario Monicelli mi ha chiamato a farne parte, mentre l’interprete principale era il grande Alberto Sordi. Ricordo che un giorno di riprese siamo lì tutti a provare, mentre lui è in un angolo, ma quando è il suo turno si alza, fa quei venti passi da dove era seduto a guardarci ed entra in scena invecchiando improvvisamente di venti, trent’anni! È la sequenza dove viene a prendere il figlio morto ammazzato. Grandissima interpretazione e in due minuti mi ha trasmesso più di un corso di accademia!». Sono curioso, avendo scritto un libro sull’Albertone nazionale, e voglio altri dettagli: «Sul set l’ho visto poco, ma un giorno ci siamo divertiti come matti a Canale 5 quando hanno invitato i non cantanti che avevano cantato e dietro le quinte ero con lui e con Gino Bramieri. E io e Sordi abbiamo giocato a chi cantava più basso: lui aveva questa voce veramente stupenda». Incalzo: che tipo di persona era? «Era cordiale… ma davvero, adesso a pensarci mi rimane l’immagine di un vero signore».
Un vero signore è anche Enrico Beruschi, con quel suo sguardo buono, l’intelligenza viva negli occhi e una mimica speciale unita a una voce unica. Prima di congedarmi desidero sapere quale consiglio darebbe ai giovani cabarettisti: «Vorrei dire loro che si può far ridere e sorridere senza turpiloquio, senza volgarità né doppi sensi. Si possono fare battute con una certa eleganza (anche quelle pepate). Per esempio, quando vedo una bella e brava ragazza di solito le dico: “Signorina, mi sono innamorato di lei. Vuole essere mia nuora?”».
(Foto Imagoeconomica)