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Stilla come rugiada dal Kuwait #4 – Testimoni dell’Amore
NEWS 9 Maggio 2021    di don Francesco Capolupo

Stilla come rugiada dal Kuwait #4 – Testimoni dell’Amore

VI Domenica di Pasqua – 9 Maggio 2021

Gv 15, 9-17

Nei discorsi di addio” (cf. Gv 13,31-16,33), attraverso i quali Giovanni ci svela le parole del Signore risorto alla sua comunità, per due volte viene annunciato il “comandamento nuovo”, cioè ultimo e definitivo: “Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri. Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri (Gv 13,34); “Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi” (Gv 15,12, all’interno del brano di questa domenica).

Sono parole certamente consegnate ai discepoli, ai discepoli di Gesù che in ogni tempo lo seguono, ma questo comandamento non è limitante, non è riduttivo delle parole sull’amore comandato da Gesù addirittura verso i nemici e i persecutori. L’amore è sempre amore di chi dà la vita per i propri amici, è sempre amore che ha avuto la sua epifania sulla croce, dunque amore di Dio per il mondo, per tutta l’umanità (cf. Gv 3,16). Questo amore è innanzitutto ciò che Dio è, perché “Dio è amore” (1Gv 4,8.16); è ciò che è vita del Padre e del Figlio nella comunione dello Spirito Santo; è amore che Gesù di Nazaret ha vissuto fino alla fine, fino all’estremo (eis télos: Gv 13,1).

Per noi l’abisso di amore estatico che è Dio stesso, è incommensurabile, e riusciamo solo a leggerlo guardando alla vita, alla morte e Resurrezione di Gesù, che avendo spiegato Dio (exeghésato: Gv 1,18), ci ha narrato il suo amore. Con tutta l’autorevolezza di chi ha vissuto l’amore fino all’estremo, Gesù ha potuto dire: “Come il Padre ha amato me, così anche io ho amato voi”. Ancora una volta queste parole di Gesù ci dovrebbero scandalizzare, perché appaiono come una pretesa: Gesù pretende di aver amato i suoi discepoli come Dio sa amare e di questo amore di Dio dice di avere conoscenza, di averne fatto esperienza.

Come può un uomo dire questo?

“Padre, per noi è importante la celebrazione! Come faccio ad amare chi non mi ama se non ricevo Gesù?” così mi ripeteva Flory, una signora di origine indiana, alla fine di una delle celebrazioni che ho presieduto in “Cattedrale” a Kuwait City, la chiesa anonima (non si possono esporre croci, installare campane, immagini sacre perché l’edificio non deve risultare esternamente riconoscibile come chiesa) che ospita i cattolici di vari riti presenti in Kuwait.

Una frase semplice, forse scontata. Ma quando una frase diventa scontata, vuol dire che la sostanza che rappresenta si sta affievolendo, non la riconosciamo come tale e non è più un segno ma diventa flatus vocis.

Flory piangeva mentre lo diceva, piangeva di gioia ma quelle lacrime mi hanno solcato l’anima più di un fiume in piena che straripi verso valle.

Ed io, chi sono? Mi chiedo se ricevo Gesù quando partecipo alla S. Messa? Gli chiedo di entrare in comunione con Lui quando prego? Ho pianto anch’io nel mio silenzio serale nella tenda, quella sera. Era un pianto che nasceva da una domanda: ed io chi sono? Posso dire pienamente chi sono senza riceverti?

Flory non lo sa, non lo immagina ma è stata Segno e Presenza di questo Amore di cui parla il Vangelo ma è stata anche Martire, testimone e forse non sa neanche di aver detto la stessa frase che i martiri di Abitina (49 tra famiglie e un sacerdote) nel IV secolo, diedero a chi li interrogava sul perché avessero disobbedito all’ordine dell’imperatore Diocleziano di non riunirsi per la celebrazione domenicale: Emerito, uno di loro, si alzò per primo e seguito in coro dagli altri disse: “Sine Dominico non possumus”, “Senza il giorno del Signore, non possiamo vivere”.


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