Tarda estate
Il fascino della prosa stifteriana ha caratteristiche assai singolari: secondo Nietzsche, questo romanzo (dal titolo traducibile anche con “Estate di San Martino”) è tra i tesori della prosa tedesca «che meritano di essere letti sempre di nuovo». Il giudizio è confermato da Thomas Mann, per il quale Stifter «è uno dei narratori più straordinari, reconditi, segretamente audaci e meravigliosamente avvincenti della letteratura mondiale». Persino lo storico dell’arte Hans Sedlmayr giunse a dimostrare che il resoconto stifteriano dell’Eclissi di sole dell’8 luglio 1842 costituisce una vera e propria diagnosi della condizione spirituale contemporanea. Ecco perché i lettori continuano a crescere, nonostante la stroncatura che ne fece a suo tempo Hebbel: «Lei descrive così bene i ranuncoli perché non conosce gli uomini»; e malgrado le forzature che hanno visto in Stifter ora il buon cattolico ora il cantore pagano delle selve; e nonostante le riserve della critica marxista per la quale Lukács domandava alla pagina «racconta o descrive?».
L’arcano non sarà svelato. Occorre infatti andarsi a leggere l’opera, percepirne l’atmosfera tranquilla da città di provincia (lo scrittore visse a Linz, già residenza dell’astronomo Keplero e del musicista Bruckner), immergersi nei ritmi lenti di una narrazione il cui protagonista è un giovane che vive di rendita presso una tenuta di campagna e che potrà compiere la propria formazione grazie all’incontro con un anziano barone e infine per mezzo dell’amore della giovane Natalie. Questo romanzo è un esempio perfetto di Bildungsroman ovvero “romanzo di formazione”, un genere squisitamente germanico che si caricava di valenze formative, morali, estetiche e spirituali; secondo Paola Capriolo, «più che un libro da leggere è un mondo in cui è bello abitare senza fretta». Dunque, opera adatta a quanti ancora riservino alla lettura il compito di ricreare e rigenerare, in accordo con la certezza stifteriana che «l’arte sia la cosa più umana dell’uomo: la sua funzione è di rappresentare la bellezza di Dio e del mondo» (da una lettera del 9 gennaio 1845).
Pietre colorate
Leggere Stifter significa dunque fare la conoscenza di un mondo abitato da bambini e nonni, artigiani e contadini, popolani e signori: le loro storie sono narrate nelle novelle lente e avvolgenti raccolte in Pietre colorate (Marsilio, Venezia, 2005; pagg. 284, € 7,80).
Tutto è dominato dalla «mite legge» che governa le cose e la natura: riecheggiando un celebre passo del biblico Libro dei Re, Stifter è sempre conscio che «l’alitare dell’aria, il mormorio del ruscello, il crescere del grano, l’ondeggiare del mare, il rinverdire della terra, lo scintillio delle stelle sono cose grandi: la tempesta, il fulmine, il vulcano, il terremoto non sono per me più grandi dei fenomeni menzionati sopra, sono anzi più piccoli». È evidente dunque quale sia l’affinità che lega i lettori di questo appartato scrittore austriaco, il quale disseminò la propria opera della quieta certezza di una vita dedicata interamente alla giustizia, alla semplicità, al dominio di sé stessi, alla ragionevolezza… a tutte le auree virtù dell’uomo che visse il lungo e dorato tramonto asburgico.
La lettura di queste novelle è consigliata ai lettori di tutte le età, poiché dal tesoro di queste Dorfgeschichten (semplici storie di villaggio) ciascuno potrà trarre il conforto della lettura, la compagnia di qualche ora lieta, l’adulta nostalgia di un radicamento perduto.
Per esempio, il racconto intitolato Calcare raffigura l’offerta di sé che un anonimo prete decide di compiere in un’anonima contrada, mentre la bella storia natalizia Cristallo di rocca riproduce soprattutto per i grandi il candore e il tepore di una “storia di Natale” per bambini (ne segnalo tra l’altro le pregevoli versioni cinematografiche, cfr. Il Timone n. 16, novembre 2001).
La passeggiata nel bosco
Insomma, si tratta di riscoprire un autore che seppe prevedere, oscuramente, l’imminente collasso di un’intera concezione dell’uomo: quella illuministico-liberale, che Stifter conobbe da vicino durante i moti insurrezionali del 1848, e dalla quale prese subito le distanze, perché aveva compreso che «l’unico peccato mortale nel campo dell’arte è quello commesso contro l’originaria somiglianza dell’uomo con Dio».
Con ciò, vorrei sostenere che la calligrafica, figurativa, coloristica scrittura della narrativa stifteriana fu anche un tentativo di respingere coi mezzi della bellezza l’assalto delle disarmonie spirituali (quando Stifter morì, nel 1868, il Positivismo ateo imperversava) e del culto del brutto, estetico e morale, che sul finire dell’Ottocento coincise con l’adorazione della malvagità. Oggi, rileggendo queste pagine, raccogliamo il testamento che l’autore austro-boemo lascia alle belle lettere: la certezza cioè che il male e l’odio sono impotenti, sono l’eccezione, nella storia degli uomini, e che invece l’amore coniugale, fraterno, filiale, col suo intreccio familiare di gioie e di dolori e di conforto, è un «grande fiume aureo che scorre fino a noi attraverso i millenni».
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