«Il male di questo mondo è di origine angelica e non può essere espresso in un linguaggio umano» (Léon Bloy, Le sang du pauvre). Su di un tema così arduo e coinvolgente converrà, dunque, porsi in ascolto della Parola di Dio
L’ascolto dell’antica Rivelazione
Gli interrogativi a proposito del male percorrono un po’ tutti i libri della Bibbia composti prima di Cristo. Gli insegnamenti veterotestamentari offrono alla nostra meditazione un patrimonio di verità preziose, che possiamo sintetizzare così: a) il male come frutto e conseguenza dell’uso cattivo della libertà; b) la solidarietà che ci accomuna nel destino della famiglia umana; c) la sofferenza come punizione della colpa; d) il dolore come utile prova della fede e mezzo di elevazione; e) il premio e il castigo che in ultima analisi sono in dipendenza del comportamento personale dei singoli; f) il patimento del giusto come fonte di salvezza del peccatore; g) l’intrinseca vanità dell’esistenza e la sostanziale ingiustizia terrestre, con il conseguente intrinseco appello a una futura giustizia trascendente; h) la fiducia in Dio, che alla fine interviene a salvarci dalla sventura.
Come si vede, il Signore ha guidato il suo popolo verso la comprensione del suo difficile disegno, preparandolo alla più intensa luce dell’evento pasquale.
L’antica Rivelazione alla fine approda a questa sostanziale persuasione: se non si vuole percepire il male come una pura invalicabile assurdità, occorre che il nostro sguardo si spinga oltre la barriera della morte. Chi si rinchiude in una considerazione puramente terrestre, per ciò stesso rinuncia a qualunque forma di comprensione.
Il pensiero di Gesù
All’interno della lunga storia della Rivelazione, il Figlio di Dio crocifisso e risorto appare come l’attesa conclusione di un lungo discorso e al tempo stesso come una manifestazione originalissima e nuova: è insieme un compimento e un superamento.
Soprattutto bisogna notare che Gesù conclude e trascende la Rivelazione antica non solo e non tanto per quello che dice, ma per quello che fa e addirittura per quello che è. Egli si presenta, più che come l’ultimo dei profeti, come il contenuto vero e definitivo di tutto ciò che era stato scritto e annunciato (cf Lc 24,44).
Il richiamo al Deutero-Isaia
Tra tutti i testi antichi, il messaggio cristiano si richiama con spiccata preferenza al “Libro della consolazione d’Israele”, con la sua figura del «Servo» che redime. Nella catechesi sinottica, l’episodio da cui si parte è il battesimo nel Giordano, dove la voce dal cielo identifica il Nazareno proprio con il Servo di Jahvè dell’antica profezia (cf ad esempio Mt 3,17).
Nella catechesi giovannea, la presentazione di Giovanni utilizza il concetto dell’agnello «che toglie il peccato del mondo» (Gv 1,29), che allude, fondendoli, a due cenni del Deutero-Isaia (cf Is 53,7.12: «come agnello condotto al macello… portava il peccato di molti»). L’identificazione di Gesù col «servo» è esplicita nella riflessione di Matteo (cf Mt 12,15-21). Ma anche il celebre e importantissimo loghion di Cristo: «Il Figlio dell’uomo non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti» (Mc 10,45) dimostra che questo richiamo era ben presente nella consapevolezza del Signore.
Gesù e il peccato
Gesù non è un idealista astratto che non percepisce l’universale incombere del male sull’esistenza umana. Egli dichiara che i suoi ascoltatori sono «una generazione perversa e adultera» (Mt 16,4) e suppone come cosa indiscutibile che tutti siano «cattivi» (cf Mt 7,11). È convinto che dal cuore degli uomini si riversano continuamente «fornicazioni, furti, omicidi, adulteri, cupidigie, malvagità, inganno, impudicizia, invidia, calunnia, superbia, stoltezza» (Mc 7,21-22). Sa di poter senza rischi mettere alla prova la supposta innocenza dei più ragguardevoli del suo popolo: «Chi di voi è senza peccato, scagli per primo la pietra» (Gv 8,7).
È ben consapevole che il mondo è fatalmente il luogo degli scandali; e insieme ha parole di insuperabile durezza per coloro che li provocano: «È inevitabile che avvengano gli scandali, ma guai a colui per cui avvengono. È meglio per lui che gli sia messa al collo una pietra da mulino e venga gettato nel mare» (Lc 17,1-2).
Insomma, nulla è più lontano da Gesù dell’atteggiamento ingenuo, irenico e permissivo di chi ritiene che tutti gli uomini in fondo siano buoni, e siano sempre vittime della società, delle strutture, dei vari condizionamenti.
Necessità del pentimento
Gesù non accetta l’idea tradizionale che le disgrazie sono sempre la prova di precise colpe precedenti. Piuttosto egli sa che per qualche aspetto sono tutti colpevoli e tutti perciò destinati a perire, se non interviene il pentimento (cf Lc 13,1-5 che riporta il commento ai due fatti della strage operata da Pilato e del crollo della torre di Siloe: «Se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo»).
La «preferenza» per i peccatori
Tutta la sua vita è segnata da un’attenzione “simpatica” a coloro che hanno prevaricato, dei quali egli vuole solo il ravvedimento. Perdona i peccati (cf Mt 9,2-8: guarigione del paralitico) e insegna che non bisogna mettere limiti all’esercizio della misericordia verso chi è ingiusto con noi (cf Mt 18,21-22: «non ti dico fino a sette, ma fino a settanta volte sette»). Conquista il cuore di Zaccheo, il ladro, facendosi invitare a pranzo (cf Lc 19,5); salva l’adultera dalla lapidazione (cf Gv 8,1-11); difende la prostituta dalla malignità dei commensali (cf Lc 7,36-50). Arriva addirittura a dire al suo sbigottito uditorio: «I pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel regno di Dio» (Mt 21,31).
Egli s’intrattiene volentieri con i peccatori perché è venuto per loro: «Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati; non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori» (Mc 2,17); «il Figlio dell’uomo è venuto a cercare e a salvare ciò che era perduto» (Lc 19,10).
Gesù e il dolore
La stessa singolarità di atteggiamento Gesù manifesta di fronte al dolore. Non è sempre detto – secondo lui – che la sofferenza sia in una persona concreta il segno di una trasgressione da punire; ma essa ha sempre un significato e un valore entro il disegno del Padre (cf l’episodio del cieco nato: «né lui ha peccato né i suoi genitori, ma è così perché si manifestassero in lui le opere di Dio», Gv 9,3).
Di più, nel magistero di Cristo il dolore assume quasi la natura di un privilegio per la ricompensa che vi è annessa, mentre il benessere terrestre può costituire un pericolo: «Beati voi che ora piangete, perché riderete… Guai a voi che ora ridete, perché sarete afflitti e piangerete» (Lc 6,21.25).
Anzi, poiché lui stesso è stato chiamato a soffrire, la strada del dolore è necessaria per essere seriamente suoi discepoli: «Se qualcuno vuol seguirmi, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua» (Mc 8,34).
La sua «vocazione» alla croce
Quest’ultimo “loghion” ci induce a meditare sul fatto che Gesù ritiene il dolore qualcosa di essenziale e caratteristico della sua vita terrena e della sua missione. Tutto il suo pensiero è proteso verso la tremenda passione che l’aspetta ed è da lui ripetutamente annunciata: «Cominciò a insegnar loro che il Figlio dell’uomo doveva molto soffrire, ed essere riprovato dagli anziani, dai sommi sacerdoti e dagli scribi, poi venire ucciso e, dopo tre giorni, risuscitare. Gesù faceva questo discorso apertamente. Allora Pietro lo prese in disparte, e si mise a rimproverarlo. Ma egli, voltatosi e guardando i discepoli, rimproverò Pietro e gli disse: “Lungi da me, satana! Perché tu non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini”» (Mc 8,31-33).
Se la reazione di Pietro interpreta bene la nostra ripugnanza per un disegno divino su di noi che includa la sconfitta, la sofferenza e la morte, la controreazione di Gesù ci dice che qui si è toccato un punto di estrema sensibilità e rilevanza della coscienza messianica del Signore.
Il “Getsemani”
L’episodio del Getsemani ci dice chiaramente quanto Gesù abbia percepito la drammaticità della sua “vocazione alla croce” e la tremenda difficoltà di calarla nella concretezza della sua autentica umanità: «Cominciò a provare tristezza e angoscia. E disse loro: “La mia anima è triste fino alla morte… Padre mio, se è possibile passi da me questo calice. Però non come voglio io, ma come vuoi tu”» (cf Mt 26,37-39). «Offrì preghiere e suppliche con forti grida e lacrime – ci testimonierà poi la lettera agli Ebrei – a colui che poteva liberarlo da morte e fu esaudito per la sua pietà» (Eb 5,7).
Quest’ultimo testo ci fa intravedere tutta la complessità e la misteriosità dei rapporti che intercorrono tra sofferenza, preghiera e disegno del Padre, il quale si deve compiere in ogni caso. Se Gesù accoglie la sorte che gli è stata assegnata è perché sa che il suo sangue – in quanto «sangue sacrificale » (cioè della vittima che sancisce l’alleanza nuova) – sarà versato «in remissione dei peccati» (Mt 26,28).
Come si vede, in lui si saldano, per così dire, le due facce del male – il dolore e la colpa – così come era stato preannunciato dal “Libro della consolazione d’Israele”. E appunto questo suo collocarsi al centro del mistero del male ha finalmente fatto capire agli apostoli dopo la risurrezione che Gesù di Nazaret è davvero il «goèl» (redentore) del nuovo popolo di Dio.
IL TIMONE – Marzo 2014 (pag. 48-49)
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