“Poi il Signore apparve a lui alle Querce di Mamre, mentre egli sedeva all’ingresso della tenda nell’ora più calda del giorno. Egli alzò gli occhi e vide che tre uomini stavano in piedi presso di lui. Appena li vide, corse loro incontro dall’ingresso della tenda e si prostrò fino a terra, dicendo: “Mio signore, se ho trovato grazia ai tuoi occhi, non passar oltre senza fermarti dal tuo servo. Si vada a prendere un po’ di acqua, lavatevi i piedi e accomodatevi sotto l’albero. Permettete che vada a prendere un boccone di pane e rinfrancatevi il cuore; dopo, potrete proseguire, perché è ben per questo che voi siete passati dal vostro servo”. Quelli dissero: “Fa’ pure come hai detto”. Allora Abramo andò in fretta nella tenda, da Sara, e disse: “Presto, tre staia di fior di farina, impastala e fanne focacce”. All’armento corse lui stesso, Abramo, prese un vitello tenero e buono e lo diede al servo, che si affrettò a prepararlo. Prese latte acido e latte fresco insieme con il vitello, che aveva preparato, e li porse a loro. Così, mentr’egli stava in piedi presso di loro sotto l’albero, quelli mangiarono. Poi gli dissero: “Dov’è Sara, tua moglie?”. Rispose: “È là nella tenda”. Il Signore riprese: “Tornerò da te fra un anno a questa data e allora Sara, tua moglie, avrà un figlio” (Gen 18,1-10).
Abramo è seduto all’ingresso della sua tenda nell’ora più calda del giorno. Autentico beduino, cioè “uomo del deserto”, sa che nell’aspra e spesso ostile solitudine del deserto tutti hanno bisogno di tutti e che in quel silenzio pesante e a volte opprimente ogni incontro è un evento. Per lui dunque l’ospitalità è qualcosa di sacro e non appena vede tre uomini passare si precipita a offrir loro il riparo della sua tenda, il conforto del suo cibo, l’opportunità di uno scambio di informazioni, di impressioni, di sentimenti…
La Lettera agli Ebrei, mentre loda Abramo e lo propone come modello di ospitalità, ci introduce al mistero: «Non dimenticate l’ospitalità; alcuni, praticandola, hanno accolto degli angeli senza saperlo» (Eb 13,2). Quei tre uomini infatti sono “angeli”, mal’akim, cioè “inviati” di Dio. Essi provengono da “luoghi” che sono al di là del mondo; posti al di fuori e al di sopra del mondo non hanno la caratteristica principale di questo mondo: la corporeità. Sono per antonomasia gli “incorporei” (“spiriti”, cfr. Eb 1,14). Per apparire in questo mondo ad esercitare il loro ministero di inviati, di messaggeri, devono assumere una forma corporea, che non è affatto casuale o arbitraria. Gli angeli appaiono spesso in forma di uomo; c’è infatti sempre qualcosa di umano in questi amici degli uomini, anche quando assumono altre forme. Per es. nel libro di Ezechiele, quando si manifestano sotto forma di leone, toro, aquila, hanno anche «fattezze d’uomo» (Ez 1,10). Ma, come nell’episodio della lotta di Giacobbe, anche qui il mistero è fitto, perché quello che dapprima è umano, poi angelico, si rivela ultimamente come divino. Inoltre il singolare e il plurale si intrecciano quasi inavvertitamente: «Appena li vide, corse loro incontro… dicendo: “Mio signore”» (vv. 23). E più avanti: «lavatevi i piedi e accomodatevi sotto l’albero» (v. 4), «gli dissero: “Dov’è Sara, tua moglie?”» (v. 9), «il Signore riprese: “Tornerò da te fra un anno”» (v. 10).
Diversi padri della Chiesa hanno visto in questo episodio come una pre-rivelazione della Trinità. La vita intima di Dio, che è di tre persone che da sempre e per sempre si amano, per cui Dio non è solo Qualcuno che ama, ma «è amore» (1 Gv 4,8-16) in sé stesso, ci è stata rivelata propriamente solo in quello che Gesù Cristo ha detto e soprattutto fatto. Ma essa è come annunciata, prefigurata, adombrata già in diversi punti dell’Antico Testamento e questo passo è esemplare. Gli accenni, le allusioni dell’Antico diventano chiari nel Nuovo e – in relazione ad esso – contribuiscono a chiarirne il senso: nell’Antico è nascosto il Nuovo e nel Nuovo diventa chiaro l’Antico (sant’Agostino).
Il più grande degli iconografi russi, Andrej Rublev, si è ispirato alla apparizione alle Querce di Mamre per realizzare la sua famosa icona della Trinità. La raffigurazione della Trinità è ovviamente molto difficile e la Chiesa ha sempre guardato con preoccupazione e anche un po’ di diffidenza i vari tentativi degli artisti che si sono avventurati su un terreno che è per eccellenza il luogo del mistero resistente a ogni fisica rappresentazione. Ma qui è la parola di Dio – per il ministero degli angeli – a mettere sulla strada… Abramo ospita tre viandanti e, praticando l’ospitalità, accoglie tre angeli e – in fondo – accoglie Dio. «Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui» (Gv 14,23). Se si accoglie Dio però non si può pensare che l’ospitalità non venga ricambiata… Nell’icona di Rublev infatti i tre – sotto forma di angeli e di pellegrini – sono seduti a tavola, sulla quale c’è un agnello «come immolato» (Ap 5,6), e in quella tavola c’è un posto vuoto. I tre sono come in attesa… In quell’attesa c’è il senso della nostra vita. Siamo attesi, chiamati a sederci – stanchi pellegrini della vita – alla tavola celeste dell’Amore degli eterni Tre. In questa vita però possiamo (e dobbiamo…) già anticipare questo convito di fede e di amore con i sacramenti, la preghiera e la carità fraterna.
IL TIMONE – N. 54 – ANNO VIII – Giugno 2006 – pag. 60