Le intuizioni degli antichi
Nelle cosmologie antiche troviamo molte osservazioni corrette: a partire da Talete di Mileto, che visse nel VII secolo a.C., passando per Aristotele, che nel 340 a.C. – nel De Caelo – sostenne la tesi secondo cui la terra è una sfera; e arrivando a Eratostene di Cirene (276 a.C.-194 a.C.) che nel Il secolo a.C. riuscì già a misurare con precisione le dimensioni della Terra. Anche il Medioevo, a dispetto della leggenda nera di epoca buia e incolta, fu fecondo di idee e intuizioni in campo cosmologico: pensiamo, ad esempio, al vescovo Roberto Grossatesta (1175-1253) e al rettore dell’Università di Parigi, Buridano (1290-1358). Come tutti sanno, le teorie di Copernico e Keplero – avvalorate dalle osservazioni di Galileo – prepararono l’avvento della cosmologia moderna, abbandonando l’ipotesi geocentrica dell’universo. Fino ad arrivare a Newton, che formulò la teoria della gravitazione, che è fondamentale per la comprensione dell’universo.
La moderna cosmologia & l’ipotesi Dio
La cosmologia moderna ebbe inizio nel 1929, quando Edwin Hubble (1889-1953) osservò che l’universo è in continua espansione. Più precisamente, egli scoprì che in qualunque direzione si guardi, le galassie si allontanano dalla Terra con una velocità che è proporzionale alla loro distanza da noi. In altre parole, l’universo sta espandendosi e questo significa che in passato gli oggetti che lo compongono dovevano essere molto più vicini tra loro di quanto non lo siano adesso. Questa scoperta ha “eliminato” molte cosmologie del passato, lasciandone sopravvivere soltanto due: la teoria del Big Bang di Lemaitre (1927); e la teoria dell’universo stazionario (1948) di Hoyle.
La teoria del Big Bang sostiene che l’universo si sia espanso a partire da una certa condizione iniziale di grandissima densità e temperatura, che si può pensare come un grande scoppio primordiale (il Big Bang, appunto) avvenuto nel passato, la cui conseguenza è l’espansione dell’universo, che continua ai nostri giorni. Questa è la teoria cosmologica ad oggi più accreditata.
La teoria dell’universo stazionario, nota anche come teoria della “creazione continua”, cerca di spiegare come l’universo possa esistere da sempre ed essere sempre lo stesso. La parola stazionario significa che esso è in movimento, ma con delle caratteristiche locali mediamente invariate nel tempo. Ma come è possibile, se nel frattempo si espande? Infatti, l’espansione implica una diminuzione della densità (la massa per unità di volume). Per salvare il modello Hermann Bondi (1919-2005), Thomas Gold (1920-2004) e Fred Hoyle (1915-2001) postularono che nell’universo si “creasse” materia continuamente, in una quantità molto piccola che sfugge ai controlli sperimentali, ma sufficiente per “riempire” lo spazio lasciato vuoto dalle galassie in espansione, in modo che anche se le galassie si allontanano ce ne sono di nuove che riempiono lo spazio lasciato. Proprio come un fiume in cui scorre l’acqua ma che rimane sempre uguale.
Questa teoria era l’unica seria alternativa, in accordo con le osservazioni di Hubble, a quella del Big Bang. Hoyle era un forte oppositore dell’ipotesi Big Bang, perché accettare che l’universo abbia un tempo di vita finito implica la necessità di una creazione iniziale. Cioè, di un Dio creatore.
La “vittoria” del Big Bang
Per qualche decina d’anni le due teorie furono considerate entrambe valide, ovvero in accordo con i dati delle osservazioni, finché nel 1964 la scoperta della radiazione cosmica di fondo segnò l’abbandono delle teorie alternative a quella del Big Bang.
Questa radiazione, che è un residuo termico della radiazione presente nell’universo all’incirca 379.000 anni dopo il Big Bang, non può in alcun modo esser spiegata nell’ambito di un universo stazionario, mentre è addirittura prevista nella teoria del Big Bang. Quest’ultima dunque, nonostante siano ancora molte le domande a cui non sappiamo dare risposta, si dimostra essere attualmente la migliore spiegazione dell’origine e dello sviluppo dell’universo.
Dossier: Spazio. Ultima frontiera
IL TIMONE N. 85 – ANNO XI – Luglio/Agosto 2009 – pag. 46
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