La nostra epoca ha visto progressivamente diradarsi, fino alla sparizione completa, del senso del peccato. L’uomo non vuole rendere conto a Dio del proprio operato. Ma così perde di vista il significato della sua vocazione. E, con essa, la pienezza della sua vita.
«Il cristiano moderno non chiede che Dio lo perdoni, ma che ammetta che il peccato non esiste».
E uno dei tanti, lapidari aforismi di Nicolàs Gòmez Dàvila, uno scrittore capace come pochi di penetrare con il suo pensiero, acuto come una freccia, le profondità della realtà, ponendone in evidenza le contraddizioni.
In questo caso, la sua attenzione si appunta su un fenomeno recente nella sua genesi: la scomparsa progressiva del senso del peccato in questa nostra epoca moderna e post moderna. È un fatto in qualche modo spiegabile che si collega ad un altro fenomeno del quale abbiamo spesso parlato: quel razionalismo che si fa accentratore e assolutizzante e che vuole convincere l’uomo a fare a meno di Dio. È chiaro che se Egli non c’è, non si può certo parlare di peccato. Esisterà ugualmente, per sopravvivere con un minimo di ordine, la necessità di un’etica cosiddetta laica. Però, non c’è alcun giudizio superiore al quale fare riferimento, nessuna legge divina che trasformi una trasgressione in una mancata adesione a un progetto che Dio e l’uomo stanno realizzando insieme. In quest’ottica, l’uomo risponde dei suoi comportamenti solo ad altri uomini e alle leggi da loro stabilite. E solo gli uomini decidono della sua sorte: assolverlo oppure punirlo.
Potrebbe sembrare a prima vista un meccanismo più semplice di quello che vige all’interno dell’ottica religiosa, capace di sostituirsi ad esso senza troppi danni. Invece, si tratta di un grosso problema e di un autentico pericolo per l’uomo, perché le etiche che non abbiano un aggancio sovrannaturale prima o poi finiscono tutte per mostrare la loro insufficienza: la ragione, che si illude di discernere e di illuminare i problemi, rischia spesso di aggrovigliarsi su se stessa, di essere influenzata dalle ideologie di moda in un determinato momento storico, finendo così spesso per trasformare quello che è un male oggettivo addirittura in bene apparente.
Cerchiamo di fare qualche esempio. Pensiamo, per citare un caso tra i tanti, alla cosiddetta liberazione sessuale, che ha profondamente cambiato mentalità e costumi eliminando, spesso con una celerità impressionante, quelli che vengono considerati dei “tabù”. Così ora tutto è praticamente lecito in questo campo: anzi, spesso, più è trasgressivo rispetto al passato e più viene considerato moderno e apprezzabile. Una situazione che ora, proprio questa società che ha operato tale liberazione, fatica assai a contenere, cercando di mantenere almeno qualche limite come quello contro la pedofilia. Si invocano, e giustamente, la necessaria libertà dello scambio sessuale e il rispetto verso i bambini. Senza tuttavia rendersi conto che, quando per i maggiorenni si toglie ogni remora, quando si propongono e si accettano con divertita ironia le cose più strane, i comportamenti sadomaso più spinti, gli strumenti più “originali” di cui rigurgitano i “sexyshop”, quando si favoriscono esperienze e fantasie di ogni tipo, diventa poi assai difficile, anzi impossibile, governare il campo. Cosicché, accade sempre più spesso che basti sollevare un sasso perché appaia un verminaio e che anche persone insospettabili, gente cosiddetta “perbene”, siano poi trovate con i computer rigurgitanti di immagini porno-pedofile. Oppure, per citare un altro esempio, il caso della pena di morte per i criminali, per eliminare la quale ci si è battuti rumorosamente per anni, restando tuttavia miopi verso un’altra pena di morte, ma per innocenti, considerata addirittura una conquista di civiltà: quell’aborto, inflitto ogni anno a innumerevoli bambini nel mondo. Verso questo gesto violento nei confronti di una vita del tutto indifesa, che non può non affidarsi totalmente alla sensibilità di chi l’ha concepita, ci si è impegnati con tutte le forze non solo per legalizzarlo e per renderlo in tutti i modi sempre più facile, ma ci si è anche dati molto da fare per eliminare gli eventuali residui di sensi di colpa che le donne istintivamente sentono dentro di loro.
Ottenendo in questo modo un doppio e grave danno: quello della soppressione di una vita innocente e quello di seppellire nell’inconscio della madre – ma anche del padre, se si tratta di persona un po’ sensibile – quegli elementi che permetterebbero un ripensamento, un pentimento, una feconda elaborazione della sofferenza.
Contraddizioni, dunque, a non finire quelle dell’etica laica, che si ritiene capace di darsi da sola le leggi necessarie a governare la vita umana. Un vespaio dal quale è difficile uscire. Si crede di liberare l’uomo sollevandolo dal polveroso “senso del peccato”, per renderlo in realtà schiavo di ottiche mondane confuse e variabili.
Ma il problema diventa ancor più grave quando sono i credenti ad omologarsi e a pensarla anche loro in questo modo.
Quando sono loro a non ricercare più il perdono ma, semmai, che Dio «ammetta che il peccato non esiste». Spesso, infatti, le scelte dei non credenti sono operate in buona fede, perché è l’ottica non religiosa stessa che porta a non vedere più ciò che è bene per l’uomo. Incomprensibili, invece, sono le stesse scelte in chi dice di credere in Dio, ma poi è contagiato dalla mentalità che vorrebbe eliminare il peccato con il pretesto della libertà di coscienza individuale. Coscienza che non vorrebbe confrontarsi con altro se non con i propri pensieri, i propri bisogni, i propri desideri. Coscienza che finisce per abbassare Dio al rango di un carceriere e non di un Salvatore.
Così, càpita che anche molti credenti siano irritati quando la Chiesa prende posizioni severe e coerenti in fatto di morale. Eppure, non c’è altra scelta. Altrimenti, si rischia di alterare grandemente la sostanza vera del rapporto tra Dio e l’uomo. Egli, infatti, è anche un giudice ma prima ancora è un Padre misericordioso che ci propone un cammino di crescita verso di Lui e verso quella “misura” di uomo che è Gesù Cristo. Egli sa bene, avendoci creati, come siamo fatti. Conosce i nostri limiti, le nostre cadute certe lungo la via. Ma non è questo il problema, perché è pronto a perdonarci ogni volta, a riaccoglierci con la Sua misericordia e ad aiutarci con la Sua grazia.
Il problema, dunque, non è la nostra debolezza, la nostra peccabilità, qualunque essa sia. Il guaio vero è invece un altro: è quello di non riconoscere più il valore, la necessità di questo legame vitale tra noi e Dio. Di credere, magari, che Egli esista, ma di non volersi più porre all’interno di questa dinamica in cui Egli guida la nostra coscienza, illumina il nostro cuore e ci aiuta a migliorare e ad andare avanti verso di Lui e la vita eterna. È il non volere più riconoscere il valore delle leggi che Egli ci ha dato. È addirittura, nei casi più gravi, il ribaltare del tutto l’ottica divina, scambiando il male per il bene. È il cadere in quello che è per eccellenza il peccato di questa nostra epoca: la superbia, che arrocca l’uomo in se stesso e lo allontana dalle sue vere radici.
Il suo contrario, invece, è l’umiltà, è la consapevolezza di essere fragili. Tutti fragili, nessuno escluso. Tutti esposti ad ogni tipo di peccato, tutti tentati dalla lussuria, dall’ira, dall’egoismo e da ogni altro vizio. Così, ciò che ci aiuterà davvero sarà la nostra capacità di capire quale sia il dono di questa relazione che Dio instaura con ciascuno di noi e, di conseguenza, di chiedere ancora e sempre perdono.
Dio non è un padrone che vuole servi obbedienti alle Sue leggi impegnative. Non è un giudice che ci vuole comminare una pena, ma è lo stesso Abbà di Gesù, un “paparino” sempre chino verso di noi con le braccia aperte. Mantenere il senso del peccato in questo mondo che l’ha perso significa, dunque, ritrovare con pienezza la nostra autentica vocazione. E, con essa, la pienezza della vita.
RICORDA
«Il peccato è “il nemico numero uno” della nostra santificazione e, in realtà, il nemico unico, giacché tutti gli altri lo sono in quanto derivano dal peccato o ad esso conducono. Il peccato è una “trasgressione volontaria della legge di Dio”».
(Antonio Royo Marin, Teologia della perfezione cristiana, n. 151).
IL TIMONE N. 72 – ANNO X – Aprile 2008 – pag. 56-57