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11.12.2024

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150 ANNI DOPO
31 Gennaio 2014

150 ANNI DOPO


 

Ricordare la verità dei fatti: questa la condizione per celebrare correttamente la prossima ricorrenza del processo unitario della penisola italiana. Senza nostalgie. Ma anche senza nascondere le pagine oscure del Risorgimento

 

Sono italiana e orgogliosa di esserlo. Anche se, negli ultimi decenni, gli italiani hanno perso amore per la vita e per sé stessi al punto da trasformarsi in un popolo che, smettendo di fare figli, ha allegramente ed inconsapevolmente scelto di suicidarsi.
Sono italiana ed orgogliosa della costante difesa che i pontefici hanno fatto della nostra libertà. Anche nell’Ottocento. Anche, nonostante tutte le leggende storiografiche, durante quell’epoca che non smettiamo di celebrare, che si chiama Risorgimento, e che è all’origine della prima immane tragedia collettiva della ricca e splendida Italia: un’emigrazione di massa provocata dal malgoverno liberale e dallo smantellamento di tutta la capillare rete di solidarietà costruita, nel corso dei secoli, dai cattolici italiani.
Pio IX, il papa del Sillabo, il papa che a giudizio della vulgata storiografica con la sua condanna della “libertà”, coprendosi di ridicolo, avrebbe mostrato il volto oscurantista ed antimoderno della Chiesa, è, al contrario, la persona che più ha fatto per evitare agli italiani la perdita della libertà. All’inizio di quell’interminabile calvario che è stato il suo lunghissimo pontificato, in una lettera alla granduchessa Maria di Toscana, Pio IX scriveva di prefiggersi una cosa: che «i popoli cattolici conoscano la verità». Le autorità del nostro Stato, le autorità che celebrano sempre e comunque, in ogni piccola o grande ricorrenza, le gesta di quella piccolissima élite liberal-massonica che ha provato in ogni modo ad estirpare dal cuore della nazione italiana la presenza capillare della Chiesa cattolica, ricordano qualcosa della verità? Sembrerebbe di no. Sembrerebbe, anzi, che facciano di tutto per seppellirla.
E allora rammentiamo qualche fatto. Proviamo a tratteggiare in estrema sintesi le dinamiche del processo risorgimentale. La rivoluzione italiana inizia con Napoleone che esporta in Italia la libertà alla francese: quella libertà che riduce Roma (la città universale per eccellenza, il simbolo stesso del potere imperiale prima, religioso poi) a provincia, e provincia di Francia. Dagli anni Venti dell’Ottocento in poi i liberali, eredi del credo giacobino, provano invano a suscitare rivoluzioni che scoppiano qua e là, sempre inconcludenti. I moti mostrano l’assoluta estraneità della popolazione italiana, cattolica, all’agognata rivoluzione. Il punto è, lo individua bene Giuseppe Montanelli, triumviro toscano, che «il popolo si confessava». E allora? «Come fare dunque per introdurlo [il popolo] nella carriera rivoluzionaria? Due vie soltanto si presentavano; o rendere il popolo ateo, o fingere credente e pia la parte libertina». Questa lucidissima via di menzogna è quella che è stata perseguita: le varie anime della massoneria, quelle filo-repubblicane come quelle filo-monarchiche, hanno provato a convincere il popolo italiano della bontà dei progetti rivoluzionari servendosi l’una di un prete, Vincenzo Gioberti, l’altra di un noto esponente della nobiltà cattolica piemontese, Massimo D’Azeglio.
Sul fronte repubblicano Gioberti, mettendo in pratica le indicazioni della carboneria e di Mazzini, suscita inizialmente “l’orgoglio guelfo” (l’unico orgoglio dei cristiani è quello di somigliare a Cristo) con la pubblicazione del Primato morale e civile degli italiani per poi sferrare un attacco frontale contro i gesuiti (Il gesuita moderno). Gioberti (il prete Gioberti!)
tenta di dare al papato una veste mondana e di dividere la Chiesa. La ricerca «della rivoluzione per mezzo della religione», come scrive don Margotti, ha effetti sorprendenti. Soprattutto perché accompagnata, sempre su suggerimento di Mazzini, da lodi sperticate rivolte a Pio IX nei primi due anni di pontificato. Papa Mastai inizia la sua missione con un’amnistia politica (i rivoluzionari tornano liberi dopo una semplice dichiarazione che mai più avrebbero attentato contro la sicurezza dello Stato) e con una serie nutrita di migliorie amministrative. I liberal-massoni utilizzano il santo comportamento del papa ai propri fini e dipingono Pio IX come il primo dei liberali: «senza la simulata devozione verso Pio IX i libertini non sarebbero stati ascoltati», scrive don Margotti.
Sull’altro fronte, quello filo-monarchico, D’Azeglio è pronto con la sua congiura (congiura!) all’aria aperta. Il marchese scrive, e scrive menzogne. Scrive falsità e calunnie sulla condizione dello Stato della Chiesa. Ma le scrive da uomo ufficialmente cattolico .
Nell’orchestrare una simile campagna, D’Azeglio è convinto di fare il bene dell’Italia? Nossignori: «Non già che ci vedessi fondamento nessuno per giovare all’Italia – scrive ne I miei ricordi – ma perché provavo il bisogno… d’aver un modo di passar la malinconia, e finalmente il mio gusto per la vita d’avventure e d’azione».
I Savoia prendono la guida del Risorgimento grazie, ancora una volta, a D’Azeglio che convince Carlo Alberto a guidare la rivoluzione: lo fanno ufficialmente per nobili ragioni di “morale”. Ragioni che la storiografia ripeterà meccanicamente fino ai nostri giorni. In che senso si può affermare che i Savoia fossero moralmente migliori di Pio IX e di Francesco II
di Borbone? Nel senso, si sostiene, che optano per una monarchia costituzionale e per uno Stato liberale. Le cose non stanno così: i Savoia violano tutti, ma proprio tutti, i più importanti articoli dello Statuto a cominciare dal primo che definisce la religione cattolica «unica religione di Stato». La persecuzione contro gli Ordini religiosi della Chiesa di Stato inizia nel 1848, subito dopo l’approvazione dello Statuto. Si comincia col sopprimere la Compagnia di Gesù condannando i figli di S. Ignazio al domicilio coatto. Per quale colpa? Il nome: gesuita. Si continua nel 1855 con gli Ordini contemplativi (monache di clausura) e mendicanti (francescani e domenicani): «Inutili, quindi dannosi», la motivazione del guardasigilli Urbano Rattazzi; “dannosi” al progresso agricolo, industriale, morale e perfino religioso, a giudizio di Cavour.
“Libera Chiesa in libero Stato”: il 1855 vede la solenne affermazione di questo principio. Per assurdo che possa sembrare, la Chiesa sarà derubata di tutti i propri averi in nome di questo principio. All’indomani dell’unità saranno più di cento le diocesi lasciate senza vescovo, entro il 1873 tutti gli Ordini religiosi verranno soppressi e, a seguire, tutte le opere pie: come si conciliano questi fatti con la libertà della Chiesa? Tutto sta nell’intendersi sul significato delle parole. Nel 1855 vengono proposte definizioni di potere spirituale e temporale suggerite da una sconfinata sete di potere: si finge di credere che il potere spirituale abbia come oggetto l’“anima” e, quindi, “i pensieri, le aspirazioni, le credenze”. Di qui la ferrea conseguenza: è lo Stato che può disporre a piacimento di tutte le proprietà ecclesiastiche, dal momento che i beni della Chiesa “non divengono spirituali per ciò solo che sono destinati al culto”.
In nome della libertà e della costituzione 57.492 persone (i religiosi) sono privati di tutto quello che possiedono: del tetto, dei mobili, degli oggetti di culto, degli archivi, delle biblioteche, dei terreni, di tutto. Così succederà alle ventiquattromilacentosessantasei opere pie. Questa opera di smantellamento del tessuto religioso, sociale, artistico ed economico della nazione è compiuto in nome della Chiesa cattolica, ufficialmente proclamata religione di Stato. Pio IX scomunica i liberal-massoni, carichi di odio e disprezzo per la Chiesa, perché bisogna fare chiarezza. Perché c’è bisogno che qualcuno dica la verità e chiami le cose con il loro nome. C’è, oggi, qualcuno che ricordi i fatti e, con i fatti, il dramma della Chiesa e del popolo italiano, violentati da coloro che si vantavano di esserne i migliori amici? Oggi nessuno, dico nessuno, nelle tante celebrazioni e nei tanti discorsi che si susseguono per il centocinquantenario, osa fare il nome del Papa, di quel Pio IX in cui si riconosceva la quasi totalità della popolazione italiana.
Nel 1855, quando è in discussione la legge soppressiva dei conventi, Cavour afferma di avere dalla sua la “pubblica opinione”. Al maresciallo Della Torre, che lo contesta, il conte risponde: «l’onorevole maresciallo ha detto che gran parte della popolazione era avversa a questa legge. Io in verità non mi sarei aspettato di vedere invocata dall’onorevole maresciallo l’opinione di persone, di masse, che non sono e non possono essere legalmente rappresentate». Nel 1855 in Piemonte vota l’1,7% della popolazione. Il presidente del Consiglio del Regno di Sardegna, il liberale e progressista Cavour, certo di incarnare l’élite morale e civile della nazione, ritiene non si debba tenere in alcun conto l’opinione del 98,3% della popolazione.
Il Presidente della Repubblica Napolitano ha recentemente auspicato che «Tutte le tensioni, le spinte divisive» vadano riconosciute e «affrontate con il necessario coraggio». Il coraggio richiesto da Napoletano non si spinge oltre la pur necessaria rilettura della conquista del Regno delle Due Sicilie. A me sembra che la questione sia molto più seria. Non si tratta solo del problema nord-sud. Si tratta soprattutto del disprezzo in cui è stato tenuto tutto il popolo italiano, del nord come del sud, perché cattolico. Nessuno nomina papa Mastai: Pio IX, e con lui il 98% della popolazione italiana, vanno rimossi. Ignorati. Leone XIII lo aveva lucidamente scritto nel 1883: per giustificare l’attacco alla Chiesa cattolica i liberali, i protestanti ed i massoni, hanno avuto bisogno di trasformare la scienza storica in una «una congiura contro la verità» (Saepenumero considerantes). Congiura rivolta in special modo «contro la storia della cristianità e specialmente verso quella parte che riguarda le azioni dei Pontefici romani più strettamente collegate alle vicende italiche […] con ciò mirando palesemente a far sì che la memoria dei tempi precedenti, imbellettata con falso colore, sia asservita al nuovo potere in Italia».
Sono italiana ed orgogliosa di esserlo. Non sono nostalgica della divisione preunitaria: sono convinta che la nostra unità politica sia un valore. Sono cattolica ed orgogliosa della difesa che i papi hanno sempre fatto della verità e, con essa, della nostra libertà.

DA NON PERDERE

Francesco Pappalardo, Il Risorgimento, I Quaderni del Timone, 2010, pp. 64, € 6,00
Per acquisti, v. pag. 9.

«Il secolo XIX è decisivo nella storia d’Italia. Le difficoltà di convivenza insorte fra gli Stati europei in età moderna e il venir meno della mediazione sopranazionale offerta dalla Chiesa cattolica e dal Sacro Romano Impero rendono difficile la sopravvivenza dei piccoli Stati e determinano l’avvio di un processo di carattere politico, avente come fine l’Unità, cioè l’unificazione della penisola italiana. Alla sfida rappresentata dal nuovo scenario internazionale avrebbe costituito idonea risposta una federazione di Stati, cioè un abito ritagliato su misura, che fosse adeguato alla mutata situazione e assicurasse il rispetto dell’antica personalità dei popoli d’Italia. Prevale, invece, la soluzione unitaria, seguita da una omogeneizzazione delle istituzioni e dalla creazione di un forte Stato centralista. L’imposizione di un abito istituzionale inadeguato è accompagnata da gravi prevaricazioni nei confronti della Santa Sede e da un processo di natura grosso modo culturale, il Risorgimento, mirante a “modernizzare”, ovvero a stravolgere, la millenaria identità del Paese, ritenuta inadeguata da ristrette élite politiche e intellettuali. Pertanto, la costruzione dell’Italia moderna, che emargina a lungo i cattolici, costituisce un vulnus tanto più grave in quanto va a toccare non un elemento secondario della “nazionalità spontanea” degli italiani, ma il suo cuore, il senso di appartenenza religiosa».

 


 

 


IL TIMONE  N. 95 – ANNO XII – Luglio/Agosto 2010 – pag. 22 – 24

 

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