Per gli antichi Romani il giuramento costituiva un impegno irreversibile di fronte alla divinità. Esso implicava un rapporto di fiducia reciproca tra persone. Che non poteva essere tradito senza lo scotto di una punizione umana e divina.
Uno storico greco del Il secolo a.C., Polibio di Megalopoli, ammiratore dei Romani e dei loro costumi, scrive nelle Storie (VI 56, 6 sgg.) che «lo stato romano si distingue in meglio soprattutto nella concezione degli dei», ma aggiunge: «credo anzi che a mantenere unito lo stato romano sia proprio un aspetto biasimato presso gli altri popoli, ovvero la superstizione (letteralmente: "timore ansioso degli dei")», concludendo che «fra i Greci, chi amministra la cosa pubblica, anche se gli viene affidato soltanto un talento, con dieci revisori, altrettanti sigilli ed un numero doppio di testimoni, non riesce a mantener fede alla parola data, mentre i Romani, pur maneggiando forti somme di denaro come magistrati o come legati, rispettano il loro dovere semplicemente in forza della parola data nel giuramento».
Con questo Polibio riconosce gli effetti positivi di buon governo che derivano dal timor di Dio, anche se il suo rigido razionalismo lo induce a ritenere che il senso del divino non sia altro che uno strumento di potere – e quindi una superstizione – agitato come spauracchio per fare andar bene la cosa pubblica. Il termine greco impiegato da Polibio trova una parziale corrispondenza di significato nel termine latino religio, l'etimologia del quale deriva dal verbo re-ligare, nel quale è presente l'idea di legame, vincolo, e la cui accezione corrente è «scrupolo religioso», «impegno assunto verso la divinità» e, in definitiva, «culto reso agli dei».
In effetti, il senso religioso dei Romani, più semplice ma anche più solido di quello di altri popoli, che non lasciava indifferente neppure un greco colto e scettico come Polibio, era strettamente connesso con l'impegno politico, intendendo per politico ciò che riguarda il governo della Città e quindi anche l'onestà di comportamento dei suoi magistrati, ai quali il popolo delegava direttamente il compito di governare. Cicerone, addirittura, ritiene che nessun'altra attività umana avvicini tanto l'uomo a Dio quanto fondare o contribuire a difendere le civitates, intese come comunità di persone (Sullo Stato I 7,12). In particolar modo, Polibio riteneva vincolante il giuramento che i magistrati pronunziavano al momento di entrare in carica chiamando gli dei a testimoni del loro impegno in favore della comunità cittadina. Ogni giuramento, che i Romani chiamavano ius iurandum (sacramentum era il giuramento militare), costituiva un impegno irreversibile di fronte alla divinità.
Esso implicava un rapporto di fides, cioè di fiducia reciproca tra persone, che non poteva essere tradito senza che ciò comportasse una punizione umana e divina: una disposizione del più antico codice di leggi romano (le leggi delle XII Tavole), risalente alla metà del V secolo a.C., ordinava che chiunque avesse infranto la fiducia di un altro (l'infrazione della fides era la fraus, la frode) fosse dichiarato sacer, cioè consacrato agli dei, e ciò equivaleva a una condanna a morte. Il rapporto costruito sulla fides costituisce il primo vincolo costituivo della società romana, come è testimoniato anche da una antica iscrizione (il c.d. Lapis Satricanus, risalente al VI secolo a.C.) in cui viene menzionato un legame di alleanza (societas) fra uomini d'arme. Per questo, i Romani, sia che volessero confermare il loro impegno sia che lo sfruttassero come mezzo di propaganda internazionale, consideravano la fedeltà alla parola data come una loro prerogativa, che li distingueva dai tanti che invece non onoravano gli impegni assunti (ad esempio nei trattati di alleanza o di pace) come i Cartaginesi.
È significativo che intorno alla metà del III secolo a.C., nel corso della I guerra punica, che opponeva per la prima volta Roma a Cartagine, la Fides venisse divinizzata e le venisse dedicato un tempio eretto vicino a quello di Giove, quasi a voler segnalare che tale divinità era onorata dai Romani subito dopo il padre di tutti gli dei. Il significato politico era esplicito: diversamente dai Cartaginesi i Romani tenevano nella massima considerazione la parola data, simboleggiata dalla fides alla quale prestavano un culto divino, e garantivano di rispettare le alleanze, come di fatto fecero sempre (la fides Romana si contrapponeva naturalmente alla fides Punica).
Questo impegno di mantenere fede alla parola data faceva parte di una serie di pratiche religiose che avevano lo scopo di costruire un'intesa stabile con gli dei. I Romani erano convinti che avrebbero conseguito i loro obiettivi, soprattutto militari, se avessero intrattenuto con gli dei un rapporto corretto, che consisteva nel rispetto delle prescrizioni cultuali: la celebrazione delle feste riservate alle varie divinità, il rispetto rigido delle formule sacrali, i sacrifici propiziatori, la richiesta di auspici per conoscere la volontà degli dei prima di rivestire una magistratura e di intraprendere iniziative militari. Tutto questo aveva consentito ai Romani di stabilire un patto con gli dei che essi chiamavano pax deorum (pax ha la stessa etimologia del verbo paciscor, «concludo un patto»). Nel corso del III e del II secolo a.C. abbiamo diverse testimonianze di tutto questo.
I Romani finirono per considerarsi il popolo più amato dagli dei perché li tenevano nella massima considerazione e li onoravano più di tutti gli altri. Una interessante dichiarazione di un pretore romano in una lettera indirizzata agli abitanti di un'isola greca, scritta al principio del II secolo a.C., illumina questo aspetto: «che la nostra preoccupazione continua e più sincera sia il rispetto degli dei lo si può riconoscere con certezza dalla benevolenza che essi ci manifestano in contraccambio attraverso queste cose; nondimeno da moltissime altre siamo stati convinti che sia divenuto a tutti manifesto che noi teniamo gli dei in maggior onore di altri».
I generali romani avevano grande considerazione di questa componente religiosa della loro attività e gareggiavano fra loro nell'erigere templi a questa o quella divinità per accattivarsene la protezione, e i Romani definirono felicitas l'esito favorevole di una impresa condotta a termine grazie alla benevolenza divina.
BIBLIOGRAFIA
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IL TIMONE N. 81 – ANNO XI – Marzo 2009 – pag. 28 – 29