“Apologismi fuori luogo”. Così un celebre teologo, stizzito, liquidò Messori nel corso di una tavola rotonda televisiva a proposito di non ricordo più cosa. È vero. L’apologetica è ormai fuori luogo, fuori da qualsiasi luogo. Anche perché te ne fanno passare la voglia. I cattolici stiano in sagrestia e si occupino “del sociale”, cioè di handicappati, immigrati, prostitute, tossici eccetera. Naturalmente gratis. Se ti azzardi a mettere il naso fuori, cioè a fare qualche pur timido tentativo di dire che Cristo è anche fondatore di civiltà, arrivano le mazzate: rischi anche fisicamente, tu e la tua famiglia non ti danno lavoro o te lo tolgono, ti querelano. E quelli che contano, nella Chiesa, fingono di non conoscerti. Questa storia, che va ti da decenni, ha ormai (de)formato il popolo cattolico. Le chiese sèmpre frequentate, così le parrocchie. Ma se chièdete a qualche praticante qualcosa che abbia a che fare con la cultura non devozionale cristiana, scoprite che al massimo ha sentito parlare di due tre autori: Messori, Laurentin, il sottoscritto forse.
Ma quali sono le opere che conoscono di questi tre? Quelle religiose: io sono “quello dei santi”, Messori è “quello che ha intervistato il papa” e Laurentin “quello di Lourdes”. In una recente occasione ho avuto modo di passare qualche giorno con alcuni animatori di pellegrinaggi paolini. Mai sentito il mio nome (in effetti, non sono famosissimo). Si sono illuminati quando hanno saputo che ho tradotto il libro di Laurentin su Lourdes, prefato da Messori. Come volevasi dimostrare. La tecnica dell’intimidazione ha dato i suoi frutti, basta guardarsi attorno: la stampa cattolica è copiosissima, ma si occupa solo di religione e assistenza; l’unico quotidiano cattolico, pur molto prudente (o forse proprio per questo), naviga quasi sempre in perdita; il cinema cattolico produce soltanto padripii e vite di Gesù sotto le feste; le televisioni cattoliche sanno che i documentari sulla Terrasanta “tirano”, e vi si tuffano.
Insomma, i cattolici si sono davvero convinti che il loro posto è la sagrestia, e il guaio è che ci stanno pure bene, al calduccio e al riparo. Chissà, forse è giusto così. Nel senso che è provvidenziale. Il mondo scristianizzato è sempre più invivibile, e il numero esponenzialmente crescente dei delusi viene a ingrossare le file dei seguaci della religione. La fede tornerà ad essere cultura per via demografica. Ma i cattivi non sono fessi. A suo tempo convinsero gli italiani a non far figli e ora cercano di convincerli a far fuori i terminali. Ma si sono accorti che hanno convinto solo i loro, perché i cattolici figliano, non abortiscono neanche gli handicappati e non vogliono sentir parlare di eutanasia. Così, gli odiatori del cattolicesimo hanno spalancato le porte all’immigrazione islamica (ci si faccia caso: la stragrande maggioranza degli immigrati, anche quelli dell’Est, vengono da paesi musulmani) e la coccolano in tutti i modi.
La Chiesa? Mezzo secolo di ombrello democristiano ne ha rallentato i tempi di reazione. Ma il vento è cambiato, il Pannella-pensiero è egemone, la De non c’è più. Basta paragonare la cronaca quotidiana pre-Sessantotto a quella odierna per accorgersi, per esempio, che gli omicidi dalla prima pagina sono finiti nelle brevi locali. È cambiato tutto, ma certi ottantenni faticano a capirlo. Prendiamo la battaglia per la scuola libera. Mai nemmeno iniziata. L’unica cosa che si è cercato di ritagliarsi è il finanziamento di Stato per le scuole cattoliche.
Cosa che, dopo essere stata ben centellinata e calata dall’alto, verrà concessa. Ma non c’è bisogno di scomodare i proverbi per sapere che chi paga comanda. Niente, la sagrestia è il luogo per i cattolici, nonché l’assistenza gratuita nella cosiddetta “area dell’emarginazione”. Esattamente quel che Napoleone e Cavour intendevano per “libera Chiesa in libero Stato”. Ci sono riusciti alla grande. Il problema è che per stare in sagrestia ci vuole il carattere giusto, e non tutti ne reggono lo stile. Faccio un esempio.
Ricordo un pellegrinaggio pasquale in un santuario d’alta quota, freddo boja, messa la mattina alle sei (dunque, sveglia alle cinque e mezzo e digiuni). Quattro celebranti, di cui uno a dirigere l’improvvisazione. “Adesso, per dimostrare la nostra gioia per il Risorto, cantiamo”. Alle sei di mattina. Digiuni. Sì, qualche patetico starnazzio uscì dalle nostre gole strozzate, ma l’esempio è significativo. Eravamo circondati da mezzo reparto oncologico venuto a chiedere un miracolo che, naturalmente, non avvenne (i miracoli, per definizione, sono eventi il cui unico denominatore comune è l’estrema rarità). E dovevamo dimostrare la nostra gioia? Certo, la certezza della resurrezione può dare, talvolta e a qualcuno, un frisson, ma di sicuro non un’allegrezza a comando. Ebbene, è proprio questo tipo di melensaggine, più diffusa di quanto si creda, a tenere lontani i lontani. E ad allontanare i più svegli tra i vicini. I quali sono trattenuti solo a colpi di apologetica. Perché la gioia è dei mistici. Gli altri, tutti gli altri, hanno solo, tutt’al più, una speranza. Rendere conto e ragione di questa speranza è quel che fa l’apologetica. Sì, perché non tutti si sono avvicinati al cattolicesimo per via emotiva; per alcuni (pochi) c’è voluta quella cerebrale. Anche questi hanno diritto al Regno dei Cieli, anche se la cosa sembra dia fastidio ai mediocri (i quali possono essere anche teologi emeriti e titolati).
IL TIMONE N. 13 – ANNO III – Maggio/Giugno 2001 – pag. 52-53