Forse non abbiamo mai pensato che la scuola è il luogo dove insegnanti e studenti si danno appuntamento per “coltivare” il passato. E così ritrovare in una pagina di grande letteratura alcune tracce vive dell’epica che parla al cuore di ogni uomo.
Accompagnando una classe in visita di istruzione, mi è capitato di sentir affermare, dalla guida della mostra sulle origini dell’uomo nei tempi preistorici, che gli studi scientifici mostrano come il 98% del corredo genetico di una scimmia sia sovrapponibile, senza differenze, a quello dell’uomo: i due patrimoni cromosomici quasi coincidono. Sulla via del ritorno, in pullman con gli studenti, tante discussioni si accesero; e una volta giunto a destinazione, continuavo a pensare a quel “2-per-cento” di differenza, a quell’infinito qualitativo contenuto in una goccia microscopica. Mi piace pensare che in quella quota siano comprese almeno due “facoltà” che ci distinguono dal resto del regno animale: la possibilità di sorridere e la capacità di studiare.
L’idea del sorriso mi è suggerita senza dubbio dai visi degli studenti, così lieti di aver trascorso una mattina diversa dal consueto scolastico; mentre lo studio deriva forse da una deformazione professionale: tant’è (poco dopo, però, ascoltati dei musicisti eseguire alcuni quartetti per archi, dovrei aggiungere perlomeno l’abilità di suonare). Sorridere e studiare tuttavia sono atti che di rado si accompagnano: sembra anzi che la seconda azione, studiare, debba necessariamente esclude la prima, sorridere. Ma dato che mi è capitato, nell’esperienza personale, di studente prima e di insegnante poi, di vivere la condizione del sorriso anche dopo lo studio, o durante lo studio, e poiché l’ho ritrovata in seguito anche in alcuni dei miei alunni, inviterei a non liquidare tanto presto la questione.
Normalmente, lo studio è causa di stanchezza e di tristezza: per la mole di lavoro e di attenzione, per i risultati che non sono congruenti a quanto desiderato. Eppure dovremmo ringraziare persino per i momenti di stanchezza e di tristezza, perché essere stanchi impone di chiederci ogni volta “ma chi me lo fa fare?” ed essere tristi induce a ripensare a un passato più felice, e dunque a ricordare. Eccoci alla questione radicale della cultura umanistica occidentale: la domanda “perché studiare?”.
Lo studio della letteratura
Ogni mattina, in aula, avviene il piccolo miracolo quotidiano dell’incontro tra passato, presente e futuro: l’ora di lezione. Sono gli insegnanti a rendere scuola una scuola: essi possono ritrovare il coraggio di sorridere e studiare anche nella tradizione umanistica della letteratura, senza la quale la scuola non esisterebbe. Non ho detto “la storia della letteratura” bensì “la tradizione”, cioè: non una serie archeologico-archivistica di documenti, bensì una linea tenue ma viva che da ieri può dare significato all’oggi. In altre parole, direi che una lezione di letteratura è l’incontro adesso con alcune tracce di un tempo passato: un incontro che avviene nella relazione insegnante-alunno, cioè nel tempo, ma allude a una situazione “senza tempo” (e penso a Socrate e Platone, ma anche a Eliot e Pound).
Attraverso gli insegnanti, gli studenti accedono a una dimensione che va oltre il presente e permette il domani: conoscono qualcosa che prima era loro ignoto. “Le cose non sono sempre state così, né lo saranno per sempre”: ecco un qualcosa che dà speranza.
Attraverso il discorso degli insegnanti, gli studenti accedono ai testi, cioè ai reperti che documentano che il passato, anche se passato, esiste in qualche modo. In sostanza, scoprono che nel lungo corso della storia noi non siamo soli. Un brano di una poesia di T. S. Eliot, tratto dai Quattro quartetti, offre profonde ispirazioni e copiosa materia di riflessione.
Se veniste da queste parti
prendendo qualsiasi strada, partendo da qualunque posto,
in qualunque ora e in qualunque stagione
sarebbe sempre lo stesso: vi toccherebbe spogliarvi
dei sensi e della ragione. Non siete qui per verificare,
per istruirvi o soddisfare una curiosità
o per fare un rapporto. Siete qui per inginocchiarvi
dove la preghiera è stata valida. E la preghiera è più
che un ordine di parole, l’occupazione cosciente
della mente che prega o il suono della voce che prega.
E quello per cui i morti non trovavano parole, da vivi,
ve lo possono dire da morti: essi comunicano
con lingue di fuoco al di là del linguaggio dei vivi.
Qui, l’intersezione del momento senza tempo
è l’Inghilterra e nessun luogo. Mai e sempre.
(Little Gidding, I vv. 41 e ss.)
E se mettessimo, per gli uomini non confortati dalla dimensione della fede, ogni volta che il poeta dice “preghiera”, la parola “pietà”, nel senso ampio della virgiliana pietas, avremmo ancora maggiore chiarezza, e maggiore fecondità. I poeti possono essere storici, i poeti possono essere geografi: e noi, quante volte abbiamo creduto di vedere per la prima volta, e con occhi nuovi, una terra o un panorama già visti, ma rigenerati attraverso le parole di un poeta o di uno scrittore?
Le prospettive rovesciate, cioè l’epica
Il latinista marxista Concetto Marchesi disse una frase illuminante, a questo proposito: cioè che “l’arte ha bisogno di uomini commossi, non di uomini riverenti”. E, al di là di qualunque altra implicazione, ritengo che tale frase sia un grande assioma per un nuovo modo di studiare e di insegnare: commuovere vuol dire muovere gli animi, proprio come lo intendeva la musica barocca, cioè muovere i sentimenti.
In tempi recentissimi, in qualche classe scolastica si è verificata un’esperienza singolare: rileggere l’epica a ritroso. In che senso?
L’epica, cioè la narrazione di cose eroiche che la memoria non vorrebbe mai dimenticare, è il passato letterario che dà un oggi e forse un domani al cuore. Qualche insegnante ha voluto, recentemente, partire dalla sensibilità (o dalla moda) attuale verso il romanzo epico Il Signore degli Anelli di J.R.R. Tolkien: e di là, da una conoscenza superficialmente diffusa tra i giovani, tornare verso l’epica di Omero, dove il confronto tra gli aspetti di somiglianza sottolinea in realtà le divergenze.
Un’ulteriore linea epica che parte dal centro della contemporaneità per attingere al sempre è rappresentata dall’opera (o meglio, testimonianza) di due “ragazzi del ‘21”: Mario Rigoni Stern ed Eugenio Corti, con il suo grande romanzo Il cavallo rosso. Grazie a questi autori, tra l’altro tuttora in azione, potremmo risalire lungo i sentieri della vita e della letteratura, sino alle sorgenti di ciò che è ritenuto “epico”, cioè degno di essere narrato. Ma l’ultimo invito, che adesso appare chiaro sulla scorta di quanto detto sopra, è a non sottovalutare un classico che i programmi scolastici impongono come obbligatorio, e che riscopriamo ogni anno come inaudita novità: la Divina Commedia di Dante.
IL TIMONE – N. 44 – ANNO VII – Giugno 2005 – pag. 50-51