Una nuova lingua si aggira in Europa e nel mondo. È “politicamente corretta”, non sopporta alcuna diversità e vuole eliminare l’ultima differenza ancora esistente, quella fra l’uomo e la donna.
Una neolingua s’avanza. E, magari anche a causa della leggerezza di qualche telecronista, si crea un clima di terribile censura. Di certo la pressione del “politicamente corretto” non si è avvertita la prima volta all’inizio di aprile, quando Don Imus, commentatore radiofonico della Cbs statunitense, ha indicato ironicamente, con un’espressione gergale, le caratteristiche chiome di alcune giocatrici di basket di pelle nera. Che l’emittente abbia deciso di licenziarlo il 12 aprile scorso, dopo avergli dapprima inflitto due settimane di sospensione, indica più una strumentalizzazione del caso che l’effettiva gravità delle parole pronunciate. Erano insorti il candidato democratico alla Casa Bianca, Barack Obama, e molti inserzionisti, l’uno per farsi pubblicità, gli altri per timore che la pubblicità si ritorcesse contro di loro. E ora Imus ha un bel mordersi la lingua, ma la sua carriera nell’etere può dirsi finita per sempre. Dovrà prodursi in un inutile mea culpa, come se fosse davvero un razzista del Ku Klux Klan (organizzazione che fra l’altro contava molti aderenti di pelle nera), ma soltanto perché il copione prevede anche questo epilogo: il pubblico ludibrio mediatico come punizione esemplare e monito per il futuro.
Ma l’America non è un mondo dove si muovono forze tanto diverse da quelle che hanno conquistato il Vecchio Continente. Non accade soltanto oltreoceano che le minoranze spadroneggino sulle maggioranze costrette a una penitenza perpetua anche per crimini mai commessi. In Europa si aggira lo spettro di un manuale segreto, ma sulle cui tracce si è messo il quotidiano britannico The Daily Telegraph. Dovrebbe servire a «prevenire la distorsione della fede islamica e l’alienazione dei musulmani in Europa», prevenendo così fraintendimenti. In pratica imporrebbe la rigida separazione di alcuni aggettivi da alcuni sostantivi. Da quanto trapela fuori dagli uffici della Commissione europea, le parole “islamico”, “jihad” e “fondamentalista” non andrebbero mai più scritte o pronunciate insieme a “terrorista”.
Se il nuovo lessico, che dovrebbe valere come bavaglio per i funzionari e i portavoce dei governi comunitari, costituisce una deriva pericolosa, la tappa successiva e ben più grave è un regolamento già approvato e pubblicato sulla Gazzetta ufficiale delle Comunità europee il 30 dicembre 2006, «che istituisce un istituto europeo per l’uguaglianza di genere». Oltre a notare, di passaggio, che la neolingua non contempla più la regola che impone di evitare ripetizioni, leggendo il testo emergono di primo acchito alcune considerazioni sulla tecnica subdola di mascherare il con-tenuto inaccettabile delle norme liberticide sotto le apparenze del bene o, nel migliore dei casi, del neutro. Sin dalle premesse si tratta di «eliminare le ineguaglianze e promuovere la parità tra uomini e donne», oltre che di «prendere i provvedimenti opportuni per combattere le discriminazioni fondate, tra l’altro, sul sesso». Sennonché, mentre i sessi rimangono sempre due, tra di essi fa capolino la «prospettiva di genere». Non si spiega nel dettaglio in cosa consista quest’ultima prospettiva e proprio questo rende ambigua e sospetta la formulazione. Occorre addentrarsi nei meandri delle istituzioni internazionali, dove l’ideologia di gene-re si è sviluppata, per cogliere la portata di quel concetto oscuro ai più. Lo fa Dale O’Leary nella sua opera, recentemente tradotta e pubblicata in italiano col titolo Maschi o femmine? La guerra del genere (Rubbettino Editore, Soveria Mannelli [Cz], 2006, pp. 208, € 14), smascherando le manovre in atto da anni alle Nazioni Unite da parte di lobby femministe e omosessuali per imporre le loro parole d’ordine. A sua volta, il Pontificio Consiglio per la Famiglia, nel suo documento su Famiglia, matrimonio e “unioni di fatto”, le riassume, descrivendo l’ideologia di “gender” come un sistema secondo il quale «l’essere uomo o donna non sarebbe determinato fondamentalmente dal sesso, bensì dalla cultura. Tale ideologia attacca le fondamenta della famiglia e delle relazioni interpersonali», a partire dagli anni 1960-70, quando «si sono affermate alcune teorie (che oggi gli esperti qualificano generalmente come “costruzioniste”) secondo le quali l’identità sessuale di genere (“gender”) sarebbe non solo il prodotto dell’interazione tra la comunità e l’individuo, ma anche indipendente dall’identi-tà sessuale personale. In altri termini, nella società i generi maschile e femminile sarebbero esclusivamente il prodotto di fattori sociali, senza alcuna relazione con la dimensione sessuale della persona. In questo modo, ogni azione sessuale sarebbe giustificabile, inclusa l’omosessualità, e spetterebbe alla società cambiare per fare posto, oltre a quello maschile e femminile, ad altri generi nella configurazione della vita sociale». Tanto che «la rivendicazione di uno statuto analogo per il matrimonio e per le unioni di fat-to (incluse quelle omosessuali) è oggi generalmente giustificato facendo ricorso a categorie e termini derivanti dall’ideologia di “gender”».
C’è da domandarsi se il ministro della giustizia, Clemente Mastella, che intende apparire come paladino della famiglia tradizionale contro i cosiddetti Di.co, sia veramente l’autore del disegno di legge di sua iniziativa – e fatto proprio dal governo Prodi –, che parifica il reato di negazione del genocidio e quello di discriminazione fondata sull’identità di genere, prevedendo pene pecuniarie e perfino detentive per chi sgarra.
Ma non è l’unico attacco portato in Italia, dove la malaugurata ipotesi investigativa della Procura di Como che nell’inverno scorso, a cadaveri ancora caldi, aveva individuato come possibile autore della strage di Erba Azouz, un cittadino tunisino, marito e padre di due delle tre vittime, oltre che pregiudicato. Subito, i magistrati l’avevano comunicato alla stampa, scatenando la caccia a un mostro che tale non era. Gli assassini, com’è noto dalla loro confessione, erano in realtà due vicini di casa, fra l’altro molto lombardi. Ma i titoli di giornali e tg hanno indispettito alcuni. In prima linea si è distinta l’Unhcr, organizzazione delle Nazioni Unite che cura gli interessi dei rifugiati. Non che Azouz sia un rifugiato, tutt’altro. È solo che l’occasione si prestava a scrivere una lettera ai direttori di tutte le testate giornalistiche della Penisola e a farsi, ancora una volta, un po’ di pubblicità. Così la signora Laura Boldrini, portavoce dell’organismo internazionale, ha preso carta e penna e ha impartito la sua lezioncina di morale laica ai professionisti dell’informazione. Che ne hanno certo bisogno, sia chiaro, come tutti. Soltanto, non impareranno a rispettare la verità dei fatti grazie alla proposta avanzata di stilare una nuova Carta dei doveri.
IL TIMONE – N.63 – ANNO IX – Maggio 2007 pag. 16-17